Testo di Cristina Ropa
Foto cortesia
Ridare vita, rendere visibile, mostrare la forza di ciò che si pensava non esistesse più. Farlo con un sorriso luminoso sul volto, farlo con grazia, con cordialità, con la voglia di stare insieme, di mettersi in relazione e imparare, molto, senza limiti, dalla diversità che il mondo può offrirti. Ed è proprio in un luogo pieno di biodiversità quale è la Palestina, a Battir per essere precisi, un villaggio fuori Betlemme considerato Patrimonio dell’Umanità dell’UNESCO, che nel 2014 è sorta La Palestine Heirloom Seed Library (PHSL), fondata dall’artista, scrittrice, attivista, ambientalista Vivien Sansour con l’intento di preservare i semi antichi minacciati da politiche che prendono di mira gli agricoltori e li costringono ad adottare nuove varietà frutto dell’agro business. Un luogo emblema di resilienza, di innovazione nel preservare la tradizione, un luogo simbolo di coraggio e di saggezza.
I cimeli, questi preziosi semi, accuratamente selezionati dagli antenati palestinesi, rappresentano dunque per Sansour, una delle ultime roccaforti di resistenza alla privatizzazione del seme, la primaria fonte della vita, portatori di memorie ancestrali, di tradizioni tramandate e più volte colpite, emarginate, dimenticate. Il PHSL è un progetto interattivo di arte e di agricoltura che crea spazi in cui le persone possono confrontarsi e raccontarsi. Da qui il viaggio di Sansour si è esteso a tutto il mondo grazie a una cucina itinerante e la sua voglia inesauribile di creare connessioni, di conoscere, di relazionarsi, di scoprire per riscoprirsi.
La Palestine Heirloom Seed Library è nata come risposta per contrastare l’agro business e quindi per preservare i semi indigeni palestinesi e tutte le tradizioni culturali a essi associate. Perché è così importante per te partire dai semi?
Sono in un momento della mia vita, dopo un decennio che mi occupo di questo, in cui mi sto proprio chiedendo: perché ho scelto i semi? Una delle risposte è perché credo siano il simbolo di uno stato dell’essere che in quanto esseri umani possiamo sperimentare. Come palestinesi, ad esempio, quello che sperimentiamo ogni giorno è il fatto di sentirci invisibili. I semi indigeni a volte sembrano morti perché vengono dimenticati e considerati come qualcosa del passato. Molte persone pensano che siano irrilevanti ma poi in realtà, conoscendoli, si rendono conto che sono potenti e resistenti. E si rendono conto anche di averne bisogno soprattutto ora che stiamo affrontando la crisi climatica. Ora c’è un aumento di richiesta di queste varietà di semi perché le persone hanno visto che utilizzandoli non solo aumentano la capacità di resistenza alle malattie (la diversità porta benessere al microbioma intestinale, ndr) ma hanno anche molta saggezza, perché hanno la capacità di vivere e di svilupparsi in un sistema di collaborazione tra suolo, anima, persone e conoscenza. Penso di non aver scelto consapevolmente di occuparmi di semi. Penso che siano loro ad aver scelto me. Questo mi fa sentire onorata. Mi hanno scelta per raccontare le storie e in sostanza per raccontare anche la mia storia.
E qual è la tua storia?
Di solito racconto più facilmente le storie degli altri. Penso che la mia storia sia semplice. Come molte ragazze giovani nel mondo ho dovuto vivere con dei limiti e ho dovuto accettare le circostanze in cui sono nata. Nel mio caso, in quanto ragazza indigena, ho dovuto accettare il mio ruolo femminile imposto dalla società, così come ho dovuto accettare anche i parametri dell’oppressione e affrontare la realtà che vivo sotto il controllo militare. Ho dovuto anche accettare di vivere in una società patriarcale e vedere distrutta la mia cultura che tanto amo, accettare quanto di essa è sopravvissuto. Ho dovuto accettare inoltre cose nuove che erano violente, anche più violente di quelle che già conoscevo, perché ci sono diversi livelli di violenza. A me però piacciono le cose nuove, con il mio lavoro non cerco di rifuggirle, e la mia storia penso sia la storia di una ragazza che rifiuta il binario in cui si sviluppano solitamente le storie: o essere la brava ragazza che accetta tutto o essere una ragazza completamente emarginata. Io voglio essere una forza che crea qualcosa di nuovo che non è associato alla realtà. Voglio provare, scelgo di provare, a creare un altro modo. Non sapevo come potesse essere, non ne avevo mai visto un modello. Ma penso che la mia storia sia cercare di immedesimarsi in qualcosa che tutti mi dicevano essere morto, i semi indigeni, e decidere di volermene innamorare, comunque.
Davvero straordinaria. Sei molto coraggiosa a scegliere questa strada. Per le giovani donne non è facile.
Grazie. Devo imparare ad avere più coraggio.
Anche la cucina mobile che hai creato è davvero straordinaria. In quante città hai cucinato insieme alle persone?
Ovunque io vada. Ho iniziato con la Palestine Heirloom Seed Library ed è stata una cosa davvero tangibile pianificare con gli agricoltori queste varietà di semi, assicurarsi di averne abbastanza. È stato davvero potente lavorare con loro su una cosa che le persone non conoscono perché considerano morta. Perché anche se sanno che esistono, li hanno dimenticati. E quindi non sanno che aspetto hanno, non ne conoscono il sapore. Quindi non sanno nemmeno come cucinarli questi semi. E i contadini quindi faticano a venderli. L’idea è stata quella di creare questa struttura mobile. La mia storia in qualche modo si ricollega. Mia madre quando ero piccola mi cacciava sempre fuori dalla cucina perché voleva darmi una vita diversa da quella che aveva avuto lei. Per lei questo suo gesto è stato come un regalo. Oggi io amo le cucine. È buffo. La mia vita ora è incentrata su di loro. Ho deciso dunque di creare una cucina mobile che può essere divisa in parti per essere caricata nella mia auto per viaggiare con me. Quando la monto nei vari luoghi che visito, le persone sono incuriosite e quindi vengono verso di me e chiedono. Questo ci permette di iniziare una conversazione. A volte hanno paura di certi argomenti perché per loro significa accettare che dovranno fare dei cambiamenti nelle loro scelte di vita. Ad esempio, quando dici a una donna che i cereali che dà a suo figlio tutte le mattine per colazione non sono naturali e poi metti in discussione anche il resto dell’alimentazione, diventa molto difficile per lei accettare il fatto che sta prendendo delle decisioni sbagliate per la salute dei suoi figli e non solo. La cucina invece ti aiuta, ti permette di avere questo tipo di conversazione senza sentirsi male perché mette alla base l’apprendimento e la capacità di creare una situazione intima. È bello avere questa cucina mobile e invitare tutti, non importa da dove vengano.
Ed è bello essere in grado di conversare mentre si cucina qualcosa, concederci qualcosa che sa di antico ma all’interno di un nuovo design a cui tu hai dato un nuovo significato. Siamo proprio come i semi. Preserviamo e vogliamo far rivivere la tradizione ma cerchiamo anche di co-evolvere. E questo ci permette di dire come si può progettare la nostra vita e il nostro futuro, piuttosto che limitarci a ciò che conosciamo già. A volte mi hanno invitata in posti dove non ho potuto portare con me la cucina mobile. In quei casi uso la cucina di altre persone. Nel libro che ho realizzato per la mostra ora in esposizione a Bologna a Palazzo Boncompagni https://www.fotoindustria.it/en/exhibitions/palestine-heirloom-seed-library/, ho immaginato che la cucina sviluppasse le ali per volare in luoghi diversi e creare nuove possibilità. È un libro che racconta la storia che qualcos’altro è possibile.
Come sei riuscita a creare queste situazioni di aggregazione? Hai contattato le istituzioni dei luoghi in cui sei andata oppure tramite amici?
Non c’è un come ma una cosa. Volevo imparare dalle esperienze di altre persone. Facciamo quello che facciamo a livello locale ma la soluzione per il Pianeta comprende il livello globale. Sapevo quindi che per avere una visione ampia di ciò che stiamo facendo con la Palestine Heirloom Seed Library dovevo avere come alleato anche il Pianeta. Tutto è nato dalla mia curiosità e dal fatto di seguire le mie emozioni, la mia gioia. All’inizio sentivo parlare spesso da amici di alcuni agricoltori nel centro di Los Angeles ad esempio. Così ho prenotato i biglietti e sono andata a incontrare queste persone. Oppure ho sentito di alcune cose che stavano succedendo tra gli agricoltori a Chicago e quindi sono andata. Seguo solo il mio cuore. Ovunque vada non ho un piano. Vado con l’intento di connettermi con le persone, di imparare da loro e ogni volta mi sono resa conto di quanto siamo sempre più forti insieme, di quanto questo ci faccia sentire meno soli. Penso di essere stata molto fortunata.
Qual è una delle esperienze più belle che hai vissuto in giro per il mondo?
È stato quando ero in Italia. Ero andata per incontrare un amico e conoscere meglio il mercato degli agricoltori di lì. Sono rimasta scioccata perché per molto tempo ho viaggiato in Sud America e in Medio Oriente e non pensavo che gli agricoltori in Europa fossero in difficoltà. Li ho incontrati e mi sono resa conto che anche loro si trovano in una brutta situazione. E questo è davvero importante per me, perché rafforza la consapevolezza che tutti gli agricoltori nel mondo stanno lottando. Ho conosciuto quindi un contadino originario di Genova ma che ora abita in una zona della Pianura Padana. Mi ha presentato le sue mucche e avevano un aspetto diverso rispetto dalle mucche che avevo già visto in quei luoghi. Erano vacche Varzesi. Aveva da poco festeggiato il suo anniversario di matrimonio e per regalo a sua moglie le aveva regalato un maschio e una femmina di mucca di questa razza. Un gesto che ho trovato super romantico. Oltre a questo, mi ha mostrato la sua coltivazione di grani antichi. Rispetto al passato, la Pianura Padana si è trasformata per dare da mangiare alle mucche olandesi per fare il Parmigiano Reggiano. Lui ha deciso di ritornare ai grani antichi autoctoni. Quindi abbiamo cucinato il pane fatto con questo grano, l’abbiamo cotto insieme a sua moglie. È stata una cosa davvero magica e deliziosa. Non avevo mai mangiato un pane così buono. Quando gli ho chiesto che cosa fosse mi ha risposto: “Autonomia”. Ho sentito la mia mente fiorire. È stato un momento magico per me. Mi ricordava mia nonna e mia madre che dicevano sempre “Se hai il tuo grano e il tuo olio e non avrai mai fame”. È stata una cosa bella perché raffina in me l’idea del rapporto tra cibo e autonomia, cibo e potere politico. Cibo e autorità su quello che vogliamo essere. Chiunque noi siamo, non importa dove siamo. Mi ha aiutata a comprendere che anche in Europa gli agricoltori hanno storie complicate e che stiamo lottando tutti insieme per cambiare questo mondo.
Che futuro t’immagini per l’agricoltura sostenibile?
Non conosco il futuro ma so che questa generazione di giovani è molto coraggiosa. Siamo in un momento molto delicato e urgente come non abbiamo mai vissuto prima. Come specie abbiamo cambiato la geologia del nostro Pianeta. Lo abbiamo danneggiato e quindi quello che immagino per il futuro è di sentirmi fiduciosa perché la nuova generazione è più audace e più fantasiosa di noi. Penso comunque che i giovani ventenni abbiano bisogno del nostro sostegno. Vedo un futuro pieno di speranza se, e solo se, saremo in grado di sostenere questi nuovi semi con saggezza, offrendo loro la nostra esperienza e, si spera, attraverso la volontà di immaginare insieme un nuovo design per il cibo, un nuovo modo di produrre il cibo. Il cibo non è solo qualcosa che ti “metti in bocca” per avere energia e fare le tue cose. È una relazione. Tutto quello che mettiamo sul tavolo è in relazione con noi. Per questo motivo per la mia mostra a Bologna non ho messo sul tavolo oggetti palestinesi ma cose che provengono dall’Italia, poiché la mostra sarebbe stata esposta lì. Quindi non conosco il futuro ma vedo persone attive per creare qualcosa di nuovo.
Questi giovani trasmettono tanta speranza. Se cambiamo il nostro presente possiamo cambiare anche il nostro futuro. Se ti concentri su questo istante, su questo momento, puoi pensare che tutto sia possibile.
Lo so, ma è così facile ricadere nel passato. Sei nel momento presente e puoi sentirti sorprendente con una nuova visione per il futuro. Ma è successo qualcosa nel passato che ti ha traumatizzata e che può tornare. Questo vale anche per il cibo. Come ci comportiamo con il mondo, come socializziamo, ha a che fare con le nostre paure del passato. Sento che i semi mi aiutano a ricordare quando dimentico. Inoltre, crescono e cambiano. Mi ricordano che siamo esseri dinamici, che cambiamo sempre.
Il tuo pensiero è molto profondo. Penso che il tuo lavoro possa davvero plasmare i nostri cuori. Perché se sentiamo questa connessione con la natura possiamo conoscere meglio anche noi stessi.
È vero. Stai toccando il cuore di ciò che sento. Non è che ho pensato: “Ho deciso di proporre i semi ecologici, sono così geniale!”. No. Sono carica di dolore. Tutti noi lo siamo. Penso che la maggior parte di noi voglia fingere di non essere in questa condizione. Ti fai andare bene il fare finta che qualcuno non esista e che le cose accadano in modo disastroso. Ti fai andare bene anche di avere il cuore spezzato perché non abbiamo più relazioni sociali che ci supportano. Ci facciamo andare bene anche che parliamo solo su zoom. Apparentemente va bene tutto ma secondo me non va bene nulla! Ci stiamo muovendo con tanta pesantezza e neppure ce ne rendiamo conto. E letteralmente mangiamo questa robaccia. Questo è ciò che stiamo vivendo in un momento in cui il passato sta pesando su chi siamo ora. Il lavoro è “Come innamorarsi di qualcosa che tutti dicono essere morto?”. A volte non mi sento in grado di essere una donna palestinese. Alcune persone che amo sono state uccise. Non le rivedrò più. Ma ci sono ancora dei pezzi che posso salvare e con cui creare qualcosa. In questo momento dobbiamo essere migliori tessitori e creare un nuovo arazzo.
Le persone che sono morte possono vivere attraverso la tua dedizione, la tua passione, lo spirito del tuo lavoro, credo.
Sul libro in esposizione alla mia mostra racconto la storia di sei prigionieri politici palestinesi che hanno creato un tunnel con dei cucchiai per poter evadere da una prigione di alta sicurezza. Sono riusciti a essere liberi per alcuni giorni prima di essere nuovamente catturati. Uno dei ragazzi ha scritto una lettera alla madre dove le raccontava che una parte piacevole di essere liberi in quei giorni è stato poter assaporare i frutti della valle. Questo ci racconta che ciò che mangiamo non è separato da ciò che siamo, nel senso che siamo esseri viventi e cresciamo in noi ciò che mangiamo. Quando mangiamo un melagrano, per esempio, c’è la nostra infanzia racchiusa lì in quell’alimento. Si tratta di riconnettersi con chi siamo.
Penso alla tua mostra e al video, senza audio, in cui erano presenti tante persone intorno a un tavolo. Sentivo una luce nel cuore, la bellezza di stare insieme, di condividere il cibo insieme. Ho visto i dettagli, tutte le cose sostenibili, i piatti, le bottiglie. È come se quella situazione di convivialità mi stesse trasmettendo: “C’è una parte della vita orribile ma allo stesso tempo abbiamo l’opportunità di ricordarci l’un l’altro chi siamo e il cibo ci aiuta a farlo”. È così?
Sì. Ho voluto creare nuovi spazi. Non posso cambiare tutto nel mondo ma posso creare questi “spazi di tenerezza”. E possiamo crearli così bene sul e intorno al tavolo della cucina. Possiamo farlo con un pic-nic sotto l’albero o possiamo farlo dentro una fattoria, possiamo farlo in tanti modi diversi e questo ci porta a stare bene. Quando sei ammalato e bevi la zuppa, le sostanze nutritive che ci sono dentro aiutano il tuo corpo a stare meglio ma anche la chimica che c’è tra gli esseri umani ti aiuta. Dobbiamo creare questo spazio che è tenero, soprattutto per qualcuno che vive il disagio, la sofferenza.
Hai mai pensato di creare delle Palestine Heirloom Seed Library all’estero?
Molti semi hanno viaggiato con me e sono già in giro per il mondo. Dall’Australia agli Stati Uniti, dal Sud America all’ Italia. Ogni giorno mi arrivano foto di persone che coltivano cetrioli, zucche che provengono dai semi della biblioteca. Un esempio concreto è l’azienda Valley Seed con cui abbiamo collaborato e realizzato alcuni progetti. I semi ora sono anche a New York nella Valley. Fanno parte del catalogo dell’orto botanico. Un altro luogo in cui sono presenti è a Oxnard nella biblioteca di semi della California. Quindi in molti posti e in modi diversi ci sono già. Penso che siano anche nei cortili di molte persone.
Che progetti hai per il futuro?
In questo momento sto lavorando con l’Università di Harvard a un libro. Un’autobiografia sulla mia storia in relazione ai semi. Sto cercando di scoprire la mia stessa liberazione attraverso questo lavoro.