Testo e foto di Raffaella Prandi
L’ultima devastante eruzione vulcanica con un impatto globale fu nel 1815 a Tambora, nell’arcipelago della Sonda in Indonesia. L’eruzione, classificata secondo la scala VEI (da 0 a 8) al grado 7, portò uno sconvolgimento climatico planetario tanto che il 1816 fu definito l’anno senza estate o l’anno della povertà. Le gravi anomalie climatiche distrussero infatti i raccolti dell’Europa settentrionale e di molti Stati americani. “Sono passati più di 200 anni da quell’evento e purtroppo ce ne siamo dimenticati, e questo è pericoloso perché una grande eruzione può ripetersi. Lo sappiamo dal sistema di occorrenza (una eventualità stabilita secondo una serie di calcoli, ndr). L’allarme è stato lanciato dalla vulcanologa francese Anne Fornier, fondatrice della Volcano Active Foundation in una delle giornate del Congresso Worldcanic. Il Congresso, il primo di questo genere, ha riunito a Lanzarote 70 professionisti nell’ambito della vulcanologia: cuochi, agricoltori, produttori, enologi, esperti e, appunto, vulcanologi.
La Fornier ha avvertito della “necessità di essere preparati per futuri fenomeni vulcanici devastanti che si ripetono ogni 250 anni. “Siccome non possiamo tappare i vulcani non resta che “essere consapevoli del rischio e lavorare in anticipo per mitigarne gli effetti distruttivi, per diventare più resistenti e meno vulnerabili”. Le stesse considerazioni sono state fatte dal vulcanologo del costaricano Gino González, presidente della ONG Volcanes sin Fronteras, che concentra il suo lavoro sulle crisi eruttive dei vulcani del Costarica. “Dobbiamo essere consapevoli del pericolo e lavorare sulla prevenzione”. L’allerta è ben motivata: nel mondo ci sono più di 1.500 vulcani terrestri attivi, di cui solo il 40% ha un sistema di monitoraggio”.
La Fornier è uno dei vulcanologi più rispettati in Europa, coinvolta da 20 anni in questioni di resilienza nelle terre vulcaniche, con un Master in Geografia Fisica e Analisi del Rischio Vulcanico e con esperienza nella gestione del rischio ambientale presso le Nazioni Unite. Tre anni fa ha fondato la Volcano Active Foundation, che ha come obiettivo quello di aumentare la resilienza degli abitanti e degli ecosistemi delle aree vulcaniche con un focus particolare su donne e bambini (come hanno dimostrato molte ricerche, i piccoli sono i primi nel caos e nello spavento generale a sfuggire al controllo). La Fondazione persegue questo obiettivo lavorando a stretto contatto con gli scienziati locali (“lo scambio di scienza tra i Paesi salva la vita”), nell’educare i bambini sull’esistenza dei vulcani e nel preservare la biodiversità degli ambienti vulcanici. “Perché proprio come ci sono culture diverse, ci sono vulcani diversi. Ogni vulcano è un mondo, non c’è un vulcano uguale all’altro, non esiste la forma perfetta. Diversi i magmi e diversi gli effetti collaterali. La camera magmatica è come una fonduta e contamina le rocce in maniera peculiare e dunque anche i suoli”. Da qui anche l’unicità dei prodotti vulcanici di ogni zona del mondo, endemici e unici, come hanno dimostrato i numerosi chef di tutte le parti del mondo che hanno partecipato a Worldcanic.
“Se è vero che i vulcani sono un pericolo per la società, è anche vero che le conseguenze delle eruzioni possono trasformarsi un beneficio sociale ed economico”. Il potenziale delle aree plasmate dalla cenere vulcanica è enorme. Il caso dell’isola di Lanzarote nelle Canarie è emblematico. Come ha ricordato il presidente di Saborea Lanzarote Juan Betancort, 40 anni dopo l’eruzione del vulcano Timanfaya (dal 1730 al 1736), l’isola ha raddoppiato la sua popolazione e rigenerato la sua economia”.
Llorenç Planagumà, geologo e coordinatore scientifico della Volcano Active Foundation, ha portato come esempio la terra che conosce meglio, la sua Garrotxa, il territorio catalano con più di 40 vulcani identificati. “Noi siamo il terreno su cui stiamo ed è dunque importante sapere di cosa sia fatto questo terreno, di quali rocce e suoli. Siamo ciò che mangiamo, ma siamo anche ciò che calpestiamo – ha detto Planagumà – Se la popolazione conosce il tipo di terreno in cui vive, sarà più resistente, si adatterà meglio. Non è la stessa cosa vivere sopra una lava dura o sopra una cenere vulcanica che ha generato un terreno argilloso”.
L’attuale paesaggio de La Garrotxa – ha spiegato lo scienziato – è il risultato di un’eruzione vulcanica di 8.000 anni fa. Un’eruzione che ha fornito suoli fertili che, combinati a un clima umido, hanno portato a una ricca biodiversità. Qui si coltivano prodotti unici come la cipolla dolce o i fagioli di Santa Pau. Sono stati creati percorsi turistici specifici legati al vulcanesimo che portano flussi in crescita. Ed essendo la Garrotxa una delle zone più boscose della Catalogna, è anche una meta per gli amanti della natura. Una dimostrazione di come la popolazione sia riuscita a ribaltare le conseguenze di quel fenomeno naturale a proprio vantaggio. Planagumà ha sottolineato anche come le caratteristiche dell’acqua vulcanica fossero così speciali (solo con esse si raggiungeva un certo grado di colore rosso) da dare storicamente impulso all’industria dei tessuti. Un altro vantaggio economico fornito dalla peculiarità dell’acqua e dell’orografia è stato lo sviluppo dell’industria della carta e dell’elettricità. Non sono mancati gli aneddoti a esemplificare il fatto che le colate laviche hanno portato benefici anche nell’allevamento. “Un amico contadino, ha raccontato, per far pascolare le sue pecore in aree non vulcaniche doveva ingannarle. L’erba che cresceva sui terreni vulcanici era infatti più dolce e dunque gli animali preferivano quel lato della montagna rifiutando di spostarsi sugli altri versanti”. Un altro aneddoto aveva per protagonista una mucca la cui compravendita si trasformò in una lite. L’animale, dopo essere stato venduto, non gradiva infatti l’erba dei nuovi pascoli al punto di smettere di mangiare. Così i vecchi proprietari dovettero ricomprare la mucca che riprese finalmente a mangiare. L’erba del vicino non era affatto migliore. Quella di casa che cresceva in aree vulcaniche era più dolce e saporita.
Il brodo vulcanico
Dalla Garrotxa provengono anche Fina Puigdevall e Martina Puigvert, madre e figlia, entrambe chef en Les Cols (in catalano “testa di cavolo”), ristorante due stelle di Olot, in provincia di Girona. Ben 44 vulcani identificati circondano la casa di campagna del XV secolo dove si trova il ristorante. Il loro territorio è il risultato di una eruzione vulcanica di più di 8mila anni fa, un’eruzione che ha lasciato terreni fertili e una ricca biodiversità grazie anche alla combinazione con il clima umido. Il terreno vulcanico è così leggero che permette all’acqua di fluire speditamente e ciò si traduce in prodotti eccellenti con caratteristiche peculiari.
Nel loro ristorante fattoria crescono frutta verdura, si allevano polli, gli animali pascolano, in un mulino a pietra si macinano le farine da grani locali mentre un laboratorio porta avanti ricerca e sviluppo (la figlia Martina si è formata al Basque Culinary Center). Fina e la sua famiglia (ci sono altre due sorelle impegnate in azienda) hanno una forte consapevolezza del patrimonio di sapori che si trovano appena fuori casa in area vulcanica: grano saraceno, patate della Valle d’en bas, una varietà di mais doce, il blat de moro de la Creu, i fagioli di Santa Pau, la ratafia, i maialini neri, le trote di fiume, le lumache, i tartufi, le castagne, le rape, i funghi di bosco, le erbe, i fiori… Non a caso gli ospiti vengono accolti con un brodo vulcanico, ovvero un brodo vegetale con un tocco di anguilla affumicata offerto ritualmente in una scodella di raku (“un momento di concentrazione, senza la distrazione del pane e burro…”). I fagioli di Santa Pau, un vero tesoro per la dolcezza e la soavità della buccia, vengono serviti in una latta di caviale per sottolineare come l’umiltà del prodotto non escluda la sua eccellenza.
Il pane di segale geotermico
Chi non ricorda l’eruzione del vulcano islandese Eyjafjallejökull del 2010 che paralizzò il Nord Europa con la cancellazione di centinaia di voli a causa dell’imponente colonna di fumo? Gli islandesi sono forse il popolo che ha tratto i maggiori benefici in termini economici dal vulcanesimo del loro territorio e non solo perché il Paese deriva il 90 per cento del suo fabbisogno dall’energia geotermica. I suoi paesaggi vulcanici e le sorgenti termali sono una formidabile attrazione turistica. Sigurour “Siggi” Rafn Hilmarsson, è il proprietario dei bagni geotermici del Laugarvatn Fontana, nonché chef e panificatore e ai suoi ospiti dà ogni volta una dimostrazione di come si possa cuocere il pane una di queste sorgenti. Siggi lo ha mostrato con un video anche a Worldcanic. L’impasto piuttosto morbido (farina di segale, zucchero sale lievito latte) viene sistemato in una pentola che viene sotterrata per 24 ore nella sabbia bollente.
Intorno al lago di Laugarvatn il magma riscalda gli strati d’acqua che risalgono sulla superficie ricoperta di sabbia nera. A soli 30 cm sotto la sabbia ci sono pozze d’acqua gorgogliante che può raggiungere una temperatura di 95° nella quale viene posta la pentola e lasciata 24 ore. In molte case islandesi si usa l’acqua bollente del sottosuolo per riscaldare e anzi proprio questa fonte di energia ha consentito di coltivare molti ortaggi che prima venivano importati, come per esempio i cetrioli e per i quali l’Islanda è oggi autosufficiente. Il pane di Siggi, soffice, dolce, paragonabile a una torta, spalmato di burro con fette di trota affumicata è uno dei benefici del vulcanesimo.
Il Cozido geotermale
Quella di sfruttare il calore del sottosuolo per la cottura dei cibi è una tradizione antica. Come a Furnas, piccolo villaggio dell’isola di Sâo Miguel nell’arcipelago delle Azzorre, in una delle zone vulcaniche più affascinanti al mondo. Anche nel ristorante di Paulo Costa, chef al Caldeiras & Vulcoes, i visitatori possono assaggiare il Cozido da Furnas, uno stufato di baccalà, piatto iconico del posto che sfrutta il calore del vulcano Furnas. Il Cozido è il piatto tipico delle festività e tutti tradizionalmente lo preparano. Intorno alla città ci sono infatti diverse buche nel terreno, dei soffioni sulfurei, destinati alla sua cottura e messi a disposizione degli abitanti.
Racconta Paulo che la preparazione del Cozido inizia il giorno prima con la sistemazione di tutti gli ingredienti a strati in una pentola (patate, cipolle, baccalà, bacon, chorizo, pimento, zafferano). “Alle 4 del mattino ci si reca in uno dei pozzi vicini alla città dove l’acqua scorre più vigorosamente e più prossima alla superficie, si cala la pentola nel pozzo e la si lascia per 6/7 ore. La gente del posto ha da sempre tutte le sue attrezzature ed era solita un tempo sotterrare gli ingredienti avvolti in teli e coperte. Per questo ancora si parla dell’odore di zolfo dei nostri piatti”.
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