Istantanee di Un Paese Ci Vuole, la festa siciliana di Incuso
Testo di Greta Contardo
Foto di Sisilab
L’asta del pesce di Marinella di Selinunte è un gioco di sguardi. Fugaci, mordenti, schietti, ma anche enigmatici, cauti, sottili. Al centro c’è il pesce appena portato dai pescatori e tutt’attorno un assembramento di pubblico misto che bisbiglia, indica, pensa. E poi c’è Giovanni, l’abbagnatore come lo chiamano qui. A lui spetta la battitura dell’asta, cioè decidere chi si accaparra cosa con uno strumento potentissimo (e a quanto pare infallibile): lo sguardo. Pasquale guarda in basso. Il volto è serio, simula disinteresse. Poi, in un battito di ciglia, eccolo: il suo sguardo affilato incrocia il radar di Giovanni. Una, due, tre, tante volte, perdiamo il conto e il bottino aumenta. Ogni tanto viene annunciato qualche altro nome che a noi sembra un soprannome e capita che Giovanni indichi nella nostra direzione; d’istinto sobbalziamo noi stranieri di Selinunte, con il “ma io non ho fatto niente” sulla punta della lingua; poi capendo che la traiettoria dell’indice non punta davvero a noi tiriamo un respiro di sollievo e ci rifocalizziamo su Pasquale, campione indiscusso dell’asta di quella mattina. Cerchiamo di decifrare il suo metodo seguendo il suo sguardo con i nostri sguardi. Ci arrendiamo e ci convinciamo che lui e Giovanni abbiano una sorta di telepatia. Dopo parecchi acquisti Valerio, con un sorriso ironico, chiede: “E mo chi lo cucina tutto sto pesce?”. Pasquale sogghigna, gli altri se ne fregano, nessuno risponde e neppure lo sa. Non importa, c’è tanta serenità in quell’istantanea di cultura popolare mediterranea.
Siamo in Sicilia, a Marinella di Selinunte, per Un Paese Ci Vuole, la festa di Incuso, il progetto imprenditoriale che si prende cura dei territori attraverso i prodotti alimentari. In realtà eravamo lì il 13 e 14 ottobre, ma ci piace parlare al presente visto che il ricordo è ancora particolarmente vivido. Un Paese Ci Vuole è esplicitamente una festa, la naturale conseguenza dell’evento che Incuso ha fatto l’anno scorso – per festeggiare i dieci anni di attività – che è venuto talmente bene da rifarlo, diverso chiaramente. Di fatto è una buonissima scusa per riunire persone e poter condividere riflessioni sui temi carissimi a Incuso: cibo, restanza e futuro. La Valle del Belice è il fulcro: è da lì che è partita la riflessione che si è concretizzata in Incuso traslando in agricoltura gli insegnamenti del mondo del design per unire bellezza e funzione progettando filiere agricole sostenibili che tutelano e conservano il paesaggio. Pasquale Bonsignore è il cervello dietro questa sana follia. È il Pasquale con lo sguardo affilato dell’asta del pesce, è l’interior designer che immagina nuovi futuri per il comparto agroalimentare e li realizza sotto il nome di Incuso, è sempre lui che raduna chef, produttori, musicisti; amici per condividere qualcosa di tanto vero quanto intenso, qualcosa che non si spiega a parole, ma si vive.
Il titolo (o tema) Un Paese Ci Vuole è cruciale. È la sintesi di un noto verso de La luna e i falò di Cesare Pavese: “Un paese ci vuole, non fosse che per il gusto di andarsene via. Un paese vuol dire non essere soli, sapere che nella gente, nelle piante, nella terra c’è qualcosa di tuo, che anche quando non ci sei resta ad aspettarti”. È anche il punto di partenza per una ponderazione infinita sulla restanza per cui è d’obbligo rimandare all’illuminante saggio di Vito Teti. Essere nella Valle del Belice è essenziale, per dimostrare che dai margini si può ribaltare tutto, per reinventare un territorio partendo da quello che ha, invece di quello che manca. È nella campagna intorno a Castelvetrano, sotto un grande olivo più filosofico di Socrate che il tema diventa dibattito, confronto, ricerca, quasi meditazione e soprattutto ispirazione. È il momento essenziale dell’evento: oltre due ore di talk aperto che ha coinvolto vi invitiamo a riviverne gli estratti in questo bel articolo. Sono intervenuti Luca Martinelli, Riccardo Felicetti, Mateja Gravner, Giampiero Mazzocchi, Juri Chiotti, Claudia Fauzia, Romain Cole, Marco Ambrosino… e saremmo potuti andare avanti a giornate vista l’intensità dei contenuti che sintetizziamo così: restanza è maggiore di resistenza ed è una sfida al tempo. È l’arte di restare senza rimanere fermi, di prendersi cura dei luoghi come si farebbe con un giardino segreto, di trasformare i margini in epicentri e l’abbandono in ricchezza.
Torniamo all’asta, a quello che c’è stato prima e soprattutto a quello che c’è stato dopo. Eravamo tutti lì per ragionare di cibo facendo altro. Che il vero senso di esser lì l’avremo trovato nell’inatteso l’abbiamo capito appena abbiamo messo piede al Selinunte Boutique Hotel: no matter the time, nel giro di dieci minuti dall’arrivo ci ha bussato alla porta un Gin tonic (con gin della linea D’stilla, altro progetto made in Pantelleria di Pasquale Bonsignore) in compagnia di un barattolo di olive Nocellara in salamoia (Incuso, certo). Subito dopo c’è stato il pranzo non organizzato al Lido Zabbara in cui ci siamo ritrovati tutti anche se non doveva esserci quasi nessuno. Senza conoscerci ci siamo conosciuti nel migliore dei modi: passandoci una birra, la ricotta salata per le busiate alla norma o le sarde incannate. Da persone che condividono un momento siamo diventati gruppo. Poi è arrivato il contatto con l’energia del luogo: prima una passeggiata tra le vie di Gibellina nuova, il centro abitato attuale sorto dopo il terribile terremoto del Belice del ’68 che una decina di chilometri in linea d’aria dalla Gibellina “vecchia”, quella che non c’è più. La prima, la cittadina nuova, è una galleria di arte contemporanea a cielo aperto: tappezzata di interventi artistici di esponenti contemporanei internazionali, è un miscuglio di stili e messaggi, è un luogo pieno di arte, ma vuoto di senso di appartenenza; i gibellinesi lì non si sentono a casa e questo sentimento è tangibile nell’assenza di manutenzione, nell’abbandono. La seconda è la più vasta opera di land art del mondo: Il Cretto di Alberto Burri, un grande monumento alla memoria sotto forma di “labirinto” costruito con le macerie delle case, delle piazze e delle strade della Gibellina terremotata. Ad amplificare il carico di emotività tra distruzione e ricostruzione, ci si è messo Roy Paci con il suo jazz, con la straordinarietà del Cretto di Burri al tramonto alle spalle. Street food siciliano per tutti e festa, come quando nei luoghi si sta bene. “Gibellina racconta come la mancanza di progettazione possa portare all’ingrippo degli ingranaggi”, così ha detto Pasquale al termine della visita a Gibellina nuova tra gli sguardi carichi di pensieri aggrovigliati dei partecipanti, un po’ per introdurre le giornate, un po’ per dare un senso a quel c’è stato e quel che ci sarà. “C’è qualcosa che non funziona nei territori dell’Italia rurale e forse riprogettando le filiere agricole, cercando di abbandonare un modello costruito sulla finanza e provando a ragionare su sistemi collaborativi dove dalla condivisione si possa tutti crescere assieme: il contadino, il trasformatore, il commerciante, lo chef, l’appassionato, il curioso. Allora forse possiamo ipotizzare delle prospettive differenti”. Ecco che il filo conduttore Un Paese Ci Vuole torna. Ma cosa significa davvero “un paese ci vuole”? È una frase va ben oltre la geografia. Non è solo una questione di confini, montagne e pianure. Un paese non è il numero di abitanti, né un CAP. È quel tessuto umano che si intreccia tra le strade, i mercati, i gesti quotidiani e le storie condivise. È, in una parola, le persone. Il paese non è altro che lo specchio delle sue persone. Se le persone sono perse, disilluse, arrabbiate, allora anche il paese lo sarà, ma se queste stesse persone trovano un modo di essere comunità allora anche il paese può diventare qualcosa di più grande.
Nel suo piccolo, nel molto piccolo, la festa di Incuso ha fatto le veci di un paese. Oltre al talk immersivo di cui accennato prima, a “fare paese” sono stati il coinvolgimento all’asta del pesce di Marinella di Selinunte e la cena estemporanea che ne è stata la naturale conseguenza. Ricordate di Valerio (Serino, chef e proprietario di Terra a Copenaghen) e della sua domanda su chi avrebbe cucinato tutto quel pescato del giorno? L’ha cucinato il paese, o meglio tutti i cuochi presenti alla festa: senza premeditazione né organizzazione, semplicemente insieme. Tra poesia del caos e filosofia della tavola. Una sorta di estetica del possibile, dove la materia prima e il momento si sono fusi in un’esperienza irripetibile. Niente orpelli, solo essenziale per il gusto di sedersi insieme, senza sapere esattamente cosa finirà sul piatto, ma sapendo che sarà buono e avrà senso. Tutto pensato e fatto in tempo reale, con l’urgenza della bellezza e la sacralità del cibo condiviso. Una brace improvvisata in spiaggia al Lido Zabbara, gli inconvenienti del mestiere, la tavola imbandita molto bene con quello che s’è trovato. Tutti i cuochi insieme, a fare il proprio e anche quello degli altri: niente di deciso, tutto naturalmente in armonia. Con le mani in cucina c’erano un po’ tutti e un po’ tutti dappertutto: da Marco Ambrosino a Juri Chiotti, da Stefano Terigi e Filippo Bonamici ad Antonio Ziantoni, da Valerio Serino a Roberto Notarnicola, da Salvatore Bianco a Emiliano Gastaldi. Ne sono uscite creazioni incredibili: dall’agnello, che doveva essere un secondo ma è diventato un antipasto, al gazpacho di cetriolo e melone con la tagliatella di seppia cruda e le erbe raccolte durante una passeggiata; dal pesce serra cotto indirettamente alla brace poggiato su una pizzaiola di sette pomodori diversi semicotti ai ditalini con salsa di caciucco. Una grande Ribolla di Gravner nei bicchieri di Gravner qualche juice pairing improvvisato da Giulia Caffiero, schiamazzi e contentezza a colorare l’aria. Inevitabilmente poi è seguita la serenata intorno al fuoco con “quelle notti che non finiscono all’alba nella via”. Poi l’ultimo tuffo dell’anno con quello strascico di estate che fatichiamo sempre a scrollarci di dosso. E infine una pasta molto notturna a cura di Valerio Serino, con un po’ degli ingredienti di Incuso rimasti in cucina e il prezzemolo e l’origano fresco: la buonanotte per i pochi irriducibili che ancora non volevano accogliere il sonno. Tutte istantanee di spontaneità che ci ricordano che la bellezza non è mai programmata e che la spontaneità non è disorganizzazione, ma è libertà.
Abbiamo bisogno di leggerezza, abbiamo bisogno di gesti come manifesti. Di persone che sono paesi. Di eventi enogastronomici che non si accontentano di sfamare stomaci, ma che puntano al cervello, alle mani e pure al cuore. Che non si limitano a parlare di cibo; lo ripensano, lo mettono al centro di una nuova visione del mondo più ampia e lo fanno anche cucinando. Come antidoto alle narrazioni patinate del cibo contemporaneo, fanno della semplicità il terreno fertile per la complessità culturale. Tu ti siedi, ascolti, parli, cucini, mangi e quando vai via non sei più lo stesso. Un Paese Ci Vuole per ritrovare il senso di comunità, di territorio, di umanità, per ricordarci – attraverso il cibo – che il cibo non è solo cibo e che la bellezza è il filo conduttore che tiene tutto insieme. E “il mondo sarà salvato dalla bellezza” (Fyodor Dostoevsky).