Testo di Francesca Ciancio
Foto cortesia di Veuve Clicquot
La celebrazione della vita. Questo è il senso dello champagne per Didier Mariotti, chef de cave della maison Veuve Clicquot dal 2019. E non è un caso che la casa francese, fondata 250 anni fa da Madame Clicquot, scelga l’arte per fare un cin alla gioia di vivere. L’espressione artistica scelta è quella di Paola Peronetto, artista friulana che utilizza una tecnica innovativa da lei stessa perfezionata nel tempo: la Paper Clay (carta e argilla). Mescolando argilla e fibra di cellulosa, crea oggetti leggeri e resistenti, dalle forme irregolari e dalla texture materica in una varietà di colori che, nel caso del lancio della nuova Cuvée de Prestige, La Grande Dame 2015, si rifanno alla palette della primavera, a cominciare dal giallo iconico della maison.
La cifra stilistica di questa annata, infatti, è la solarità che è anche l’energia di cui parla spesso Mariotti, un dinamismo che muove l’operato di uno chef de cave, un lavoro non semplice che, a differenza di quello degli enologi di aziende vitivinicole di altro genere, deve rispettare lo stile della casa madre. Coerenza, regolarità e costanza infatti sono i termini che Mariotti preferisce usare. È il maestro di cantina, infatti, che detiene i segreti del gusto della Maison e, nel caso di Veuve Clicquot, questo vuol dire avere a che fare con 250 anni di storia, avere la capacità di riprodurre e riproporre champagne fatti con vini di diverse annate che hanno tutti lo stesso filo conduttore
Didier Mariotti era in Italia per il lancio de La Grande Dame 2015, cuvée che da qualche anno gira il mondo con Garden Gastronomy, un progetto che coinvolge la gastronomia d’autore con alcuni dei più grandi chef del mondo. Questa volta è toccato a Enrico Crippa del Piazza Duomo di Alba, trovare la giusta combinazione tra il millesimato 2015 e la sua cucina vegetale. Abbiamo approfittato per fare due chiacchiere con lo chef de cave e per capire quali sono le peculiarità del suo mestiere e cosa significa lavorare per un’azienda che rappresenta un pezzo importante della storia dello Champagne.
Guardando le opere di Paola Peronetto, viene da pensare quanto sia naturale il collegamento tra le maison dello champagne e l’arte. Veuve Clicquot è solo una delle realtà che hanno scelto questo connubio. Secondo lei c’è uno spirito affine tra arte e champagne?
Assolutamente sì, perché lo champagne è il miglior vino per celebrare la vita e quando ci sono eventi che ce lo ricordano è bello offrire un calice ai propri ospiti. È un vino che ha una doppia anima, quella mondana e scanzonata, ma anche quella seria, da prodotto complesso e non facile da realizzare.
In fatto di “spirito della Maison”, Veuve Clicquot, come tutte le aziende storiche, ha linee guida ben precise. Quanto di personale uno chef de cave può mettere nelle proprie creazioni?
Qui, come nelle mie precedenti esperienze (Mariotti arriva a Veuve Clicquot nel 2019, prima aveva lavorato a Mumm, ndr), non lavoro per trasformare le cose, ma per capire l’anima dell’azienda, per renderla eterna, perenne. Il mio compito consiste nel trasmettere un’eredità, un patrimonio e ciò vale soprattutto per la linea Yellow Label (l’etichetta riprodotta in più esemplari, ndr). Su La Grande Dame e sui millesimati ho più “gioco”, ma a parlare qui deve essere veramente lo spirito del vino che è poi quello delle annate o di come io ho interpretato quella vendemmia.
La prima Grande Dame totalmente sua sarà quella del 2019. Cosa potrà raccontare di lei?
Innanzitutto, non è certo che verrà fatta, ma non credo che, di base, sia importante raccontare di me attraverso i vini che faccio, inoltre non mi piace molto svelarmi. Piuttosto è importante che le persone apprezzino i vini che faccio tenendo conto delle loro emozioni, quelle che l’assaggio e il bere suscitano in loro. Il vino è un mezzo che aiuta a tirar fuori le proprie emozioni. Come chef de cave l’unica domanda che posso porre è: “Ti piace o no?”. Durante i tasting, spesso, la persona che conduce la degustazione tende a imporre la sua visione dei vini. Io credo sia sbagliato, perché la forza di un vino – e direi anche la sua bellezza – sta nell’interpretazione personale che ciascuno può farne. Ecco in cosa altro assomiglia all’arte. Aggiungo, non c’è sempre bisogno di esprimere i propri sentimenti pubblicamente, anche se oggi è quello che fanno tutti!
La maggior parte degli enologi rivendica lo stile dato al vino e ancora tante aziende sottolineano di avere questo o quel consulente perché il dirlo porta prestigio. Sembra invece che il mestiere dello chef de cave sia più limitante…
Non la vivo come una limitazione, mettersi al servizio della maison di champagne per la quale si lavora rientra nei nostri compiti. In questi anni a Veuve Clicquot ho avuto la possibilità di degustare vecchissimi millesimati e questa è una cosa che puoi fare in pochi posti al mondo. È un privilegio di pochi. Inoltre, l’assemblaggio dei vini è una vera e propria arte e poter lavorare su così tanto materiale è una cosa rara. Ogni anno si assaggiano 800 vini diversi e il risultato finale di questo lavoro deve essere la coerenza e la costanza dello stile. Forse è questa la grande differenza tra gli chef de cave e gli enologi, loro sono giudicati in base alla qualità della proposta, noi sulla coerenza. Provo più piacere nell’integrazione, nel continuare a trasmettere uno stile già dato, piuttosto che a lasciare una traccia del mio passaggio.
Il successo delle bollicine è inarrestabile. Lo Champagne va benissimo, ma non solo questa tipologia. Tutto il mondo dello sparkling non fa che stare dietro a una domanda sempre più in crescita. Lei come se lo spiega?
Posso darle una mia interpretazione: personalmente trovo che la bollicina sia energizzante, il solo fatto di vedere l’effervescenza nel bicchiere mi mette di buon umore. È una sensazione positiva che inizia già a livello visivo. Lo champagne, poi, ha creato una categoria, quella della celebrazione della vita. Non a caso il grande boom delle bollicine si è consolidato durante il periodo pandemico ed è proseguito. In quel periodo buio avevamo tutti la necessità di credere che lì fuori fosse ancora tutto bellissimo. Il vino – e le bollicine in particolare – ci ha dato una mano.