Lo chef che ha portato la cucina spagnola per il mondo
Testo di Anabel Frutos
Foto di cortesia
Lavoratore instancabile, energico, disciplinato, creativo, umile. Così è Dani García, che sta per vivere il suo più alto momento professionale. Nel 2019 disse “arrivederci” alle tre stelle Michelin che aveva nel suo ristorante di Marbella (Malaga) e diede una svolta alla sua carriera per portare la cucina andalusa e spagnola nel mondo. Dal 2014 il gruppo Dani García si è unito ai soci, Laura e Javier Gutiérrez e oggi, il gruppo si occupa di oltre un milione di clienti in tutto il mondo attraverso licenze internazionali e all’Hotel Four Season di Madrid, tutto questo grazie allo sforzo delle quasi 2000 persone ripartite in 24 ristoranti in sei Paesi diversi, inclusi gli Stati Uniti e il Medio Oriente. Il suo ristorante madrileno, Smoked Room, ricevette due stelle Michelin a sei mesi dall’inaugurazione.
Con la scusa della apertura di Leña, a Barcellona, ci riuniamo con lo chef andaluso nel ristorante dell’hotel Grand Hyatt Barcelona 5* che sarà il nuovo place to be della Ciudad Condal per gli amanti della buona gastronomia.
Quale credi sia stata la cosa che ti ha svegliato la passione per la cucina?
Sono nato e cresciuto in una casa tremendamente gastronomica, non in maniera professionale, ma amatoriale, perché mia madre e mia nonna erano delle grandissime cuoche che cucinavano dal lunedì al venerdì e mio padre, che non si dedicava a questo, era chi si incaricava di cucinare i fine settimana. Tutti i sabati mattina andavamo al mercato, compravamo prodotti, tornavamo a casa e cucinava, avendo particolare attenzione ai prodotti stagionali. Quando arrivava il periodo delle olive, le compravamo, allineavamo tre o quattro botti in casa e le tenevamo lì per dei mesi; o nei periodi delle anguille, andavamo ai ruscelli vicino al Guadalquivir. Tutto quello che si faceva a casa era focalizzato sulla cucina e, così, era difficile pensareche non sarei finito per dedicarmi a essa.
Quando ti sei reso conto di volerti dedicare professionalmente alla gastronomia?
A 15-16 anni, anche se mi piaceva molto la cucina, non pensavo di diventare cuoco, però arriva un momento – preso il diploma e il COU – in cui dovevo decidere cosa fare all’università, però non c’era niente che mi attraeva davvero. Mia madre mi disse di prendere una decisione: studiare o lavorare. Così ho iniziato a pensare e ho cercato di imporre del buon senso alla mia decisione. E vivendo a Marbella, una città molto turistica e piacendomi la cucina e la gastronomia, il meglio era immatricolarsi nella scuola di ristorazione.
Il gruppo Dani García, che nacque nel 2014, ha dei valori molto definiti di lavoro e di squadra, rispetto, lealtà, creatività ecc. Tra i marchi che riunisce (Leña, Smoked Room, Lobito de Mar, Tarifa, Doha, Tragabuches, El coleccionista, La Cabane , Alelí…) quale diresti che è l’insegna in cui ti senti più identificato e ti permette di essere te stesso?
È molto difficile scegliere uno dei tuoi figli, però, realisticamente, Tragabuches e Lobito de Mar sono forse i più andalusi e simili alla cucina di mia madre e mia nonna. Quando andavo al mercato con mio padre, quello che facevamo era comprare prodotti stagionali, come i calamari o le seppie, e preparavamo un riso o una paella, che è quello che facciamo al Lobito de Mar. A Tragabuches è più quella parte di stufati, di code di toro…
Sono quelli che mantengono le ricette più tradizionali, no?
Sì, non sarà il fine dining il mio preferito, senza dubbio. Ho fatto e dato molto per il fine dining e le tre stelle Michelin e comunque mi sento identificato, evidentemente, perché c’è una identità dietro, comunque, a oggi, non sceglierei questo.
Sei in piena espansione: Marbella, Madrid, Barcellona, Dubai, il prossimo anno a Miami. Come adatti la tua proposta in ogni luogo?
Sì, è su questo che ci piace molto lavorare e, in più, rende molto più divertenti le aperture. Quando apri un Leña a Dubai non ha niente a che vedere con quello di Barcellona, anche se la carta nella sua essenza è la stessa, però lì, per esempio, non puoi usare il vino per cucinare. Qui, a Barcellona, siamo in un posto pieno di cultura, cucina, prodotti, che come puoi non avere in carta i cannelloni, gli espardeñas o la butifarra de perol. Dietro ogni apertura c’è molto lavoro e ognuna è diversa perché, anche se si tratta dello stesso marchio, ci sono sempre cose che devi modificare e altre da adattare.
Sei appena sbarcato a Barcellona con il nuovo Leña nell’hotel Grand Hyatt. Cosa significa per te debuttare nella capitale catalana?
Allora, Barcellona è sempre stata ed è una città molto importante per la gastronomia a livello mondiale. Se è vero che durante il Covid-19 e nei momenti successivi, con i problemi politici, non è stata la migliore opzione o il miglior momento per viverla, però è qualcosa di ciclico che succede anche in altre città, come Marbella, per esempio, che pure ha passato dei momenti politici molto complicati. Così che non era arrivato il momento di Barcellona, perché è certo che si devono unire una serie di circostanze per scegliere il momento, il posto e le persone adeguate. Ora è arrivata questa occasione.
Che cosa vediamo a Leña Barcellona che non c’è negli altri tuoi ristoranti?
Non mancheranno le espardeñas alla griglia o il guisante lágrima. Il menu evolverà molto e, ovviamente, piatti come quello con l’avocado, il porro alla griglia o l’hamburger, saranno sempre presenti, ma ci saranno anche la butifarra di perol o le crocchette di butifarra, i cannelloni o le animelle al vino, che sono piatti simbolo della cucina catalana.
Riguardo al rapporto qualità-prezzo. Come riesci a mantenere questo equilibrio?
Con tanto lavoro, perché è molto difficile. In un periodo di inflazione galoppante, dove tutto aumenta a dismisura, è difficile rimanere equilibrati, ma ho una frase che dico sempre al mio team: “Cerchiamo di lavorare molto noi e non il portafoglio del cliente”. Per qualsiasi imprenditore, la cosa facile è alzare i prezzi, punto, ma noi vogliamo essere sempre onesti, perché bisogna essere estremamente grati alle persone che vengono a spendere i loro soldi nei nostri ristoranti. È qualcosa che apprezzo e rispetto molto. Quello che voglio è mantenere questo equilibrio tra qualità e prezzo ed è difficile, ma tutti dobbiamo fare la nostra parte per riuscirci.
Come definiresti il tuo marchio gastronomico
C’è molta anima dietro ogni ristorante e non sono io a metterci il marchio, ma è il marchio che lo mette. Leña ha la sua essenza, la sua identità e questo si ottiene con ambienti accoglienti dove le persone si sentono bene, con un interior design unico, con un servizio in grado di accoglierti con un sorriso da orecchio a orecchio, con un buon rapporto qualità-prezzo e, soprattutto, con una buona cucina.
Nel 2019 hai deciso di chiudere il tuo ristorante stellato e diventare uno degli chef più internazionali con 24 ristoranti nel mondo. Come sta andando questa esperienza?
Molto dura, perché lavoro molto, ma è quello che volevo e non posso lamentarmi affatto. Quando ho lasciato le tre stelle Michelin, tutto ciò che dicevo nelle interviste riguardava quello che volevo fare e oggi, cinque anni dopo, è quello che sto facendo. Ci sono state cose che non erano nel mio radar né nei miei obiettivi, come ottenere due stelle Michelin tre anni dopo con Smoked Room o una stella a Dubai, ma le apprezzo molto ed è molto gratificante, soprattutto per il team che da tanti anni lavora con me con impegno per creare tutto questo.
Nel 2022 hai ottenuto 2 stelle Michelin con Smoked Room. Che opinione hai sulla Guida Michelin francese e credi che sia giusta nelle sue assegnazioni ai ristoranti spagnoli?
Se parliamo di Albert Adrià, ti dico di no. Ho una certa predilezione per lui e penso che sia uno dei pochi cuochi al mondo che ha la capacità di fare meraviglie, nonostante il livello altissimo che esiste oggi. È un cuoco che continuerà a sorprenderci e, onestamente, non credo che abbia bisogno di essere il numero uno del mondo o altro, ma per me lo è. E se dovessi votare per il numero uno e per un tre stelle, sarebbe Albert Adrià con Enigma.
Hai un’agenda professionale molto impegnata. Come ti stacchi nel tuo tempo libero?
Gioco a golf e sto con la famiglia. Il golf mi è sempre piaciuto, perché vivo a Marbella e lì ci sono molti campi. Qualche volta ci avevo provato, ma non ci riuscivo, e con il Covid ho scoperto una nuova vita, perché avevo abbastanza tempo libero per giocare a golf e praticare moto d’acqua, che mi piace molto.
Cosa pensi della cucina italiana?
L’anno scorso abbiamo aperto Alelí, un’osteria tipica italiana a Budapest, con un menu che fa riferimento alla cucina del Piemonte, Lombardia, Campania e Sicilia. A me piace moltissimo la cucina italiana e sono ossessionato dal mondo della pasta. L’altro giorno stavo guardando un documentario su un cuoco californiano che è andato in Italia per imparare a fare la pasta in una scuola e mi ha affascinato così tanto vederlo fare la pasta fresca che ho pensato che il giorno in cui mi ritirerò, mi dedicherò a questo.
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Dani García, el chef que ha llevado la cocina española por el mundo
Texto de Anabel Frutos
Foto de Cortesía Grupo Dani García
Trabajador incansable, enérgico, disciplinado, creativo, humilde. Así es Dani García, que está por vivir su mejor momento profesional. En 2019 dijo “adiós” a las tres estrellas Michelin que tenía su restaurante de Marbella (Málaga) y dio un giro total a su carrera para llevar la cocina andaluza y española por el mundo. Desde 2014 se encuentra al frente del grupo Dani García junto a sus socios, Laura y Javier Gutiérrez. En la actualidad, el grupo atiende a más de un millón de clientes globales a través de sus licencias internacionales o el hotel Four Season de Madrid, todo ello gracias a los esfuerzos de las casi 2000 personas repartidos en 24 restaurantes de seis países, incluidos Estados Unidos y Oriente Medio. Su restaurante madrileño, Smoked Room, recibió dos estrellas Michelin a los seis meses de su inauguración.
Con motivo de la apertura de Leña, en Barcelona, nos reunimos con el chef andaluz en un reservado del restaurante, en la planta calle del hotel Grand Hyatt Barcelona 5*, y que será el nuevo place to be de la Ciudad Condal para los amantes de la buena gastronomía.
¿Qué crees que fue lo que te despertó la pasión por la cocina?
He nacido y crecido en una casa tremendamente gastronómica, no de manera profesional, sino amateur, porque mi madre y mi abuela eran unas grandísimas cocineras que cocinaban en casa de lunes a viernes, y mi padre, que no se dedicaba a eso, era quien se encargaba de la cocinaba los fines de semana. Todos los sábados por la mañana íbamos al mercado, comprábamos producto, llegábamos a casa y cocinábamos, prestando especial atención a los productos de temporada. Cuando llegaba la época de la recogida de la aceituna, íbamos a por ellas, aliñábamos tres o cuatro botes en casa y ya teníamos para unos meses; luego, íbamos a los molinos a por aceite; o en época de angulas, a los riachuelos cerca del Guadalquivir. Todo lo que se hacía en mi casa estaba enfocado a la cocina y, por lo tanto, era difícil que no acabara dedicándome a ella.
¿Cuándo te diste cuenta que querías dedicarte profesionalmente a la gastronomía?
Con 15-16 años, aunque me gustaba mucho la cocina, no pensaba en ser cocinero, pero llega un momento, cuando acabo el bachillerato y el COU, que tengo que elegir qué voy a hacer en la Universidad, pero no había nada que me atrajera de verdad. Mi madre me dijo que tomara una decisión: estudiar o trabajar, por lo que empecé a pensar e intenté imponer el sentido común en mi decisión. Y es que viviendo en Marbella, una ciudad muy turística, y gustándome la hostelería y la gastronomía, lo mejor era matricularme en una escuela de hostelería.
El grupo Dani García, que nació en 2014, tiene unos valores muy definidos de trabajo en equipo, respeto, lealtad, creatividad, etc., pero de las marcas que reúne, Leña, Smoked Room, Lobito de Mar, Tarifa, Doha, Tragabuches, El coleccionista, La Cabane , Alelí…, ¿cuál dirías que es con el que te sientes más identificado y te permite ser más tú mismo?
Es muy difícil elegir entre tus hijos, pero, realmente, Tragabuches y Lobito de Mar son probablemente los más andaluces y similares a la cocina de mi madre y mi abuela. Cuando iba al mercado con mi padre, lo que hacíamos era comprar producto de temporada, como calamares o jibias, y preparábamos un arroz o una paella, que es lo que hacemos en Lobito de Mar. En Tragabuches es más esa parte de guisos, de rabo de toro…
Son los que mantienen las recetas más tradicionales, ¿no?
Sí, no sería el fine dining mi favorito, sin duda. He hecho y he dado mucho por el fine dining y las tres estrellas Michelin, y aunque me siento identificado, evidentemente, porque hay una personalidad detrás, aunque, a día de hoy, no elegiría eso.
Estás en plena expansión: Marbella, Madrid, Barcelona, Dubai, y el próximo año en Miami. ¿Cómo adaptas tu propuesta a cada lugar?
Sí, y es algo que nos gusta mucho trabajar y que, además, hace mucho más divertidas las aperturas. Cuando abres un Leña en Dubai no tiene nada que ver con el de Barcelona, aunque la carta en esencia sea la misma, pero allí, por ejemplo, no puedes utilizar vino para cocinar. Aquí, en Barcelona, estamos en un sitio tan rico en cultura, cocina, producto, que cómo no vamos a tener en la carta canelones, espardeñas o una butifarra de perol. Detrás de cada apertura hay mucho trabajo, y cada una es diferente porque, aunque sea la misma marca, siempre hay cosas que modificar y a las que adaptarse.
Acabas de aterrizar en Barcelona con el nuevo Leña en el hotel Grand Hyatt. ¿Qué supone para ti estrenarte en la capital catalana?
Bueno, Barcelona siempre ha sido y es una ciudad muy importante en cuanto a gastronomía a nivel mundial. Si que es verdad que durante el covid y en los momentos posteriores, con los problemas políticos, no ha sido la mejor opción o el mejor momento para venir, pero es algo cíclico que también pasa en otras ciudades, como Marbella, por ejemplo, que pasó también por unos momentos políticos muy complicados. Así que no le había llegado el momento a Barcelona porque es cierto que se tienen que juntar una serie de circunstancias para elegir el momento, el lugar y las personas adecuadas. Y ahora ha llegado esa ocasión.
¿Qué vamos a encontrar en Leña Barcelona que no haya en otros restaurantes tuyos?
No van a falta las espardeñas a la brasa o el guisante lágrima. La carta va a ir evolucionando mucho y, evidentemente, platos como el del aguacate o el puerro a la brasa, o la hamburguesa, siempre van a estar ahí, pero, también van a estar la butifarra de perol o las croquetas de butifarra, canelones o mollejas con vino rancio, que son platos referentes de la cocina catalana.
A ti te preocupa mucho la relación calidad-precio ¿Cómo consigues ese equilibrio?
Con mucho trabajo, porque es muy difícil. En unos momentos de inflación bestial, donde todo sube como la espuma, nos cuesta mucho intentar mantenernos, pero yo tengo una frase que siempre digo a mi equipo, que es: “vamos a intentar trabajar nosotros mucho y no el bolsillo del cliente”. Porque para cualquier empresario, lo fácil es subir los precios, y punto, pero nosotros queremos ser siempre honestos, porque hay que sentirse tremendamente agradecidos a la gente que viene a gastarse su dinero en nuestros restaurantes. Es algo que aprecio y respeto mucho. Lo que quiero es mantener ese equilibrio entre relación calidad-precio, y es difícil, pero todos debemos poner de nuestra parte para conseguirlo.
¿Cómo definirías tu sello gastronómico?
Hay mucha alma detrás de cada restaurante, y el sello no lo pongo yo, sino la marca. Leña tiene su propia esencia, su identidad, y esto se consigue con lugares acogedores donde uno se sienta bien, con un interiorismo único, con un servicio que te atienda con una sonrisa de oreja a oreja, con una buena relación calidad-precio y que se coma bien.
En 2019 decidiste cerrar tu restaurante triestrellado y convertirte en uno de los chefs más internacionales con 24 restaurantes por el mundo. ¿Cómo está siendo la experiencia?
Muy dura, porque trabajo mucho, pero es lo que quería, y no puedo quejarme en absoluto. Cuando dejé las tres estrellas Michelin, todo lo que dije en las entrevistas que di era en torno a lo que quería hacer, y hoy, cinco años después, es lo que estoy haciendo. Había cosas que no estaban en mi radar ni en mi objetivo, como conseguir dos estrellas Michelin tres años después en Smoked Room, o una estrella en Dubai, pero que agradezco y es muy gratificante, sobre todo por el equipo que lleva muchos años conmigo trabajando duro para crear esto.
En 2022 conseguiste 2 estrellas Michelin en Smoked Room. ¿Qué opinión tienes de la Guía francesa y si crees que está siendo justa en sus designaciones con los restaurantes españoles?
Si hablamos de Albert Adriá, te digo que no. Tengo cierta predilección por él y me parece que es de los pocos cocineros en el mundo que tiene la capacidad de hacer maravillas, y con el nivel tremendamente alto que existe hoy en día. Es un cocinero que nos va a seguir sorprendiendo y, honestamente, no creo que le haga falta ni ser número uno del mundo ni nada, pero para mí lo es, y si tuviera que votar para el número uno y un tres estrellas, sería Albert Adriá y Enigma.
Tienes una apretada agenda profesional. ¿Cómo desconectas en tu tiempo libre?
Juego al golf y estar con la familia. El golf me ha gustado desde siempre, porque vivo en Marbella y allí hay muchos campos. Algunas veces lo había intentado, pero no había podido, y con el covid descubrí una nueva vida, ya que tenía suficiente tiempo libre para jugar al golf y practicar moto acuática, que también me gusta mucho.
¿Qué opinas de la cocina italiana?
El año pasado abrimos Alelí, una ostería típica italiana en Budapest, con una carta con referencias a la cocina del Piamonte, Lombardía, Campania o Sicilia. A mí me encanta la cocina italiana, y me obsesiona el mundo de la pasta. El otro día estaba viendo un documental sobre un cocinero californiano que se fue a Italia para aprender a hacer la pasta en una escuela, y me fascinó tanto verle haciendo la pasta fresca que pensé que el día que me jubile voy a dedicarme a ello.