Testo di Lorenzo Sandano
Foto cortesia di La Bandiera
La storia del Ristorante La Bandiera di Civitella Casanova l’avevamo già narrata nel numero di Cook_inc. 17: è una delle più meritevoli e luminose novelle della ristorazione italiana, di quelle che meritano d’essere ripercorse all’infinito. Uno stendardo che sventola con fierezza l’alternanza di generazioni dello stesso ceppo familiare in un flusso continuativo e radioso. Dagli esordi quale locanda di frontiera a opera della cuoca Anna D’Andrea (era il 1977!), transitando nei palmi del figlio Marcello Spadone e di sua moglie Bruna (entrambi ancora iperattivi nella gestione del locale), sino al cambio di guardia – graduale e condiviso nelle pulsioni identitarie – incarnato dai loro due eredi (nonché gemelli) Mattia e Alessio, rispettivamente in cucina e in sala.
Due giovincelli che non sono di certo rimasti aggrappati al grembiule dei genitori, ma hanno preferito temprarsi evadendo dalla loro terra per poi farvi ritorno con nuovi punti di osservazione grandangolare: Mattia transitando al Celler de Can Roca di Girona, mentre Alessio presso l’antologica Enoteca Pinchiorri di Firenze. Riconoscimenti, fasi di assestamento e integrazione di stili non sono mancati negli anni a seguire, confluendo poi nel risultato più roseo: a darne prova resta inamovibile la stella Michelin che rende questo avamposto una delle mete più significative d’Abruzzo. Cosa c’è di nuovo allora? Nulla in apparenza, tutto se estrarrete la voglia e la curiosità di spingervi a trovarli.
E vi assicuro che a ogni nuova visita, il percorso che tratteggia l’arrivo vi renderà consci del coraggio e dei meriti schierati dalla famiglia Spadone nell’aver plasmato un’insegna del genere in un luogo così poco battuto.
Oltre a questo, almeno altri tre validi motivi per spingervi fin qui: il ristorante è incantevole, dotato di stanze per gli ospiti curate allo stremo e di un porticato con piscina proteso verso una delle vedute più toccanti del paesaggio abruzzese circostante; l’orto di Bruna (in realtà curato giornalmente da tutta la famiglia) si è evoluto in foggia avanguardista, ben oltre il concetto di biologico o sostenibile, vantando un’area dall’approccio sinergico (sostentamento reciproco dei sementi senza intervento esterno) che sfoggia cromatismi di ortaggi, frutta ed erbe aromatiche/spontanee dai sapori inarrivabili. Prodotti che valicano di ere galattiche quei parametri agricoli comunemente rintracciabili in questo settore: una banalissima passeggiata insieme a mamma Spadone tra cespi di lattuga e alberi di albicocche, sarà in grado di rassettarvi l’animo e illuminarvi i sensi.
Infine, ma solo in ordine di elencazione, la cucina di Mattia – coadiuvata dallo sguardo vigile di Marcello – risplende sempre più libera, acuta e personale. Modellata sulle sue affinità rivolte alla brace, all’esaltazione dell’ingrediente e al mondo vegetale setacciato in profondità. Anche dall’emisfero meno blasonato. “Se fosse per lui, cuocerebbe tutto a fuoco vivo” ironizza papà Spadone, rimarcando il feticcio esecutivo del figlio. Ecco, un altro fattore prezioso entrando a contatto con il loro habitat è proprio questo: lo scambio incessante tra punti di vista e sfumature caratteriali apparentemente agli antipodi, che però dialogano e convivono alla grande. Mattia risulta infatti un profilo timido, poco avvezzo ai riflettori e fedelissimo alla sua visione intimista dell’universo gastronomico. Quasi a compensazione invece, sia il padre che suo fratello dispongono i tasselli dell’accoglienza con verve carismatica e una dialettica smagliante, rendendo ancor più magico questo gioco di ruoli governato da un’impensabile armonia familiare.
E mentre proprio Marcello esibisce con orgoglio uno dei suoi ultimi esperimenti norcini, ovvero una piccola (quanto deliziosa) linea di salumi da maiale nero autoprodotti – pochi come lui conoscono e maneggiano materie prime di tale rango – Alessio ci rammenta la sua classe innata nelle movenze dell’ospitalità, confezionando un Negroni cocktail con ice-cube aromatizzato all’arancio scolpito espresso in casa. Questo ragazzo non finirà mai di stupirmi: detentore di una memoria enciclopedica nella lettura degli appetiti e delle necessità dei suoi clienti sommata a una volontà famelica di apprendimento continuo. Predisposizione che fa confluire fluida nello sviluppo del servizio e della cantina non mollando mai il tiro. Sfogliare la sua nuova carta dei vini ve ne darà testimonianza. Ad affiancarlo, con altrettanta abilità nella regia della sala, c’è sua moglie Amela, che simbolicamente va a coronare il circuito di legami in questa famiglia allargata e votata a questo mestiere.
Al nocciolo di un territorio: eredità, orto & fiamme nel menu di Mattia
In carta, si condensa ogni particella del tessuto appena descritto: restano alcuni classici imprescindibili di Marcello rimaneggiati con rispetto; c’è tantissimo spazio rivolto a quell’Orto materno che brulica di vita e potenziale agricolo (non manca un menu degustazione solo vegetariano). Poi c’è la linfa ultrasensibile di Mattia che si fa largo quasi a briglie sciolte miscelando come un prodigioso druido/alchimista il lascito tradizionale di questa insegna, le tecniche immagazzinate all’estero e un ritorno accorato allo Zenith del prodotto attraverso cotture antiche e gestualità pensate per massimizzare il sapore anche di pochissimi elementi schierati nel piatto (spesso vegetali).
Non perde un’istante a dichiararsi con il suo vorticoso e sbalorditivo riassunto dell’Orto in questo interstizio stagionale: un’Insalata 6.22 (che muta di mese in mese) capace di racchiudere picchi arborei impressionanti in un volteggio di fichi acerbi, radici, funghi prugnoli crudi, rapa rossa, gli ultimi asparagi, frutta secca, tuorlo d’uovo e una moltitudine di erbe aromatiche/officinali poggiate con perizia balistica disarmante. Quando un cuoco vive davvero l’ecosistema agricolo (come lo vive lui dalle 5 del mattino ogni giorno) il risultato non può che raggiungere vette così alte.
Nel suo scandagliare minuziosamente il terroir limitrofo, emerge anche quell’incontro paesaggistico tra mare & terra che dipinge tutta la geografia abruzzese. Ecco, quindi, la dolcezza iodata della Tartare di gamberi rosa intrecciarsi con le venature robuste del pasticcio di fegatini, sino a forgiare equilibrismi sorprendenti con l’ausilio puntuale di mela e succo di sedano. La super-local Ferratella (dolce tipico) trae struttura leguminosa nell’impasto ai ceci, tramutandosi simultaneamente in un proto-tacos da farcire con manzo marinato e stagionato, salsa di mandorle amare e humus. Piatto fenomenale, che traghetta le papille verso piroette contaminate e mete lontane pur conferendo uno spaccato autorevole di tutto quel che il suolo indigeno può donare.
Il crescendo non frena, perché la Carota 100×100 – impiattata a mo’ di millefoglie e frutto di almeno 5 lavorazioni differenti attuate sul singolo ortaggio – è un piccolo/grande capolavoro. Uno tra i vegetali più umili e bistrattati dalle cucine tutte, che si fa catalizzatore di complessità, persistenza e fulcro scoppiettante di testure allineate con estro tra loro. Impossibile dimenticarne l’intensità, soprattutto di quel jus di carota che porterete con voi nei giorni a seguire. “Avevo raccolto un po’ di aglio orsino in più e ho improvvisato questo” accenna mite Mattia mentre consegna un conturbante gomitolo di Tagliolini affumicati “cacio e pepe”, aromatizzati col suddetto bottino del foraging. Un dardo istintivo che buca il bersaglio al primo schiocco.
Alla pari del dinamismo concentrico impresso nel suo Risotto al caprino, dragoncello e limone: quanta finezza in un esercizio dagli spigoli così marcati e densi. Ti illudi che il comparto ortofrutticolo sia già l’apice del pasto, ma sfidare il cuoco nel capitolo carnivoro – e della griglia – smonta di botto ogni tua impressione.
Prima il Gallo in due servizi (petto laccato con erbe di montagna alla brace e cosce in casseruola con un intingolo micidiale) a nobilitare un pennuto che probabilmente non ha mai poggiato le zampe su una tavola fine dining.
Poi il Filetto di agnello “alla Rossini” secondo Mattia, che sorpassa qualsiasi benchmark di questo grande classico grazie al manico che accosta fegato grasso e possanza ovina in assonanza magistrale, rilanciata da un torcinello (normalmente di interiora) totalmente veg quale fulmineo contorno. Non parco, Spadone ti ricorda che a La Bandiera le parole materie prime si accostano sempre e solo ai concetti di ‘animali interi & no waste’: la sua interpretazione della “Transumanza” di agnello con arrosticino delle sue interiora e animelle laccate con lampascione fritto ti avvolge in un tripudio sul 5/4 che glorifica la valenza del prodotto, la cultura eccelsa nel trattarlo e poi quella maestria esecutiva così limpida (anche sulle frattaglie) che è parte integrante di questa cucina.
Il finale tonificante del Fra-Goloso (variazioni di fragole in più consistenze con panna acida) strappa l’ennesima battuta a sfondo familiare, che rende ancora più dolce questo momento conclusivo. “Hai rischiato di saltare il dessert, visto Alessio stava per mangiarsi tutte le fragole maturate nell’orto oggi – incalza Amela mentre guarda con affetto il marito – il nome del piatto potrebbe essere tranquillamente una dedica a lui”. Che belli gli Spadone, che buoni i dessert di Mattia. Ah, perché se gli incentivi per venire fin qui non vi sono bastati, dovete sapere che il suo tocco in pasticceria è un ulteriore asso nella divisa da chef che affina sin dai tempi dei Roca. Fermatevi a dormire e godetevi i suoi lievitati per colazione quale saggio sul tema, oltre a vivere questo inestimabile prototipo di ristorazione italiana sino al midollo. Quello stesso nucleo di storie e reticoli generazionali che ogni membro della famiglia riversa nel proprio operato. Nella cura di un luogo mosso oltre-tempo, in grado di strapparvi il cuore con la sua sincerità.
La Bandiera
Contrada Pastine, 4
65010 Civitella Casanova (PE)
Tel: + 39 085 845219
www.labandiera.it