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Saggio
Intelligenza artificiale
La carbonara col basilico
Cosa piace all’algoritmo?
Artworks realizzati con l’aiuto di
Midjourney
Da Cook_inc N. 37
La carbonara col basilico
18 minuti

Non abbiamo ancora finito di comprendere i benefici e i limiti della tecnologia blockchain nell’industria alimentare, che già siamo nella fase successiva in cui gli uffici marketing delle aziende sbandierano l’Intelligenza Artificiale come nuovo asset integrato nelle proprie strategie cavalcando un trend in crescita di cui – indipendentemente che se ne comprendano o meno gli impieghi – fa parlare. E se ne parla così tanto che a 60 anni dalla prima edizione di Apocalittici e Integrati di Umberto Eco ci troviamo nel 2024 di nuovo al centro del dibattito su nuovi media e cultura di massa iniziato dallo studioso nel 1964, in una rinnovata spaccatura fra gli apocalittici Savonarola pervasi da “senso di angoscia, terribilità, di tormentosa lotta, di titanica malinconia” per il nuovo che avanza e gli entusiasti integrati che celebrano l’IA e relativi assistenti evoluti come fossero la versione tecnologica degli Ushabti1 dell’Antico Egitto.

Vi ricorda nessuno? 

Ehi, Alexa

Tornando al nuovo che avanza, va precisato che non è in realtà così nuovo e chi è un pochino più nerd sa che è da un bel po’ di anni che l’IA ci circonda, ci risolve problemi, ce li crea, ci solleva da una serie di incombenze, senza che nessuno si sia posto il problema della fine dell’umanità. Correvano gli anni 60 quando il Massachusetts Institute of Technology (MIT) presentò Eliza, riconosciuto come il primo chatbot al mondo. Eliza ha contribuito a plasmare il campo dell’elaborazione del linguaggio naturale, e oggi sta attraversando un periodo di rinnovato interesse anche grazie a ChatGPT e famiglia, che hanno giocato un ruolo fondamentale nella democratizzazione dell’intelligenza artificiale, rendendola accessibile a un pubblico più ampio, inclusi coloro che non possiedono competenze specialistiche. In una recente intervista per Repubblica, Alessio Pomaro, ingegnere e Head of Artificial Intelligence di Search On Media Group, chiarisce che “dal punto di vista delle aziende, i modelli generativi offriranno strumenti sempre più avanzati integrati nei flussi operativi per la ricerca e l’elaborazione dei dati e per ottenere automazioni sempre più profonde. Oggi si parla sempre più spesso del concetto di RAG (Retrieval Augmented Generation), ovvero di sistemi in grado di interfacciare raccolte di dati di grandi dimensioni (potenzialmente la knowledge aziendale) a un modello di linguaggio per facilitarne l’estrazione, l’elaborazione e la trasformazione in diversi output”. Come si intuisce facilmente, l’argomento è vasto e tocca tutti i settori delle attività che siano creative o meno, dunque, anche quello dell’industria alimentare che beneficia sotto molteplici aspetti dell’impiego dei Large Language Models (LLM) – modelli di intelligenza artificiale che utilizzano algoritmi di apprendimento per elaborare e comprendere il linguaggio naturale – e non basterebbe un numero intero di Cook_inc. per elencarli tutti, questi aspetti: dall’analisi dei dati per ottimizzare ingredienti, costi, sprechi, tempi, alle attrezzature intelligenti, alla relazione con il cliente, al delivery e così via fino alle applicazioni di food pairing e i generatori di ricette, con i quali non finiremmo più di giocare e divertirci…

Piace anche all’algoritmo?

Ma se dalle applicazioni sul cibo e relativa industria passiamo a considerare la relazione fra tecnologie e senso del gusto il campo si restringe, ed è in questo campo che ci concentriamo partendo da una domanda che dà il titolo alla ricerca avviata da Riccardo Masiero, dottorando presso la House of Innovation della Stockholm School of Economics affiliato all’Observatory for AI and Creativity: Piace anche all’algoritmo?

Nel nostro primo incontro, un anno fa circa, mi spiegò che la sua ricerca mirava a esplorare il ruolo della percezione sensoriale nei processi di reframing in dialogo con l’intelligenza artificiale, partendo da una riflessione: “tre sensi umani rimangono ancora esclusi dalla chatGPTizzazione della realtà: gusto, olfatto e tatto. I Large Language Models, i modelli matematici a supporto dell’IA generativa, possono creare ricette per cucinare torte, ma non possono avere diretta percezione finale dei loro prodotti… Il mio progetto di ricerca ha l’obiettivo di studiare uno dei problemi più complessi nel campo dell’innovazione: il reframing o innovazione radicale legato alla gastronomia. Il reframing caratterizza il processo di reinterpretazione di un certo prodotto, tecnologia o, più in generale, di una soluzione a cui viene dato un significato nuovo e originale. […] Con l’IA generativa per la gastronomia quali processi reinterpretativi potrebbero accadere?”.

La contro-domanda fu apparentemente semplice: Cos’è buono?

L’ingegnere informatico Maurizio Leo, in I made this AI-Generated Sourdough Bread Recipe, and it actually wasn’t too bad, dopo aver assaggiato il suo pane su ricetta generata dalla AI, riflette: “Utilizzerò ancora ChatGPT per generare più ricette a lievitazione naturale? No. In questo momento mancano creatività, sfumature e ispirazione. Le ricette generate sono semplicistiche e unilaterali nonostante l’avanzata ingegneria tempestiva: l’intelligenza artificiale vuole semplicemente generare una risposta che si adatti a uno schema piuttosto che creare una ricetta che entusiasmi e abbia un sapore delizioso. In altre parole, mentre l’intelligenza artificiale può generare una ricetta tecnicamente corretta nella maggior parte dei casi, il pane che ne risulta è per lo più banale e noioso. […] Sembra che non comprenda la relazione tra gli ingredienti in una ricetta di pane a lievitazione naturale e come i rapporti tra questi ingredienti influenzino la lavorabilità dell’impasto, la fermentazione e, infine, il sapore”.

Il sapore

Solitamente la connessione tra ricetta e prodotto finale avviene tramite l’esperienza dell’assaggio, ma l’IA non ha sensibilità (gli apocalittici qui puntualizzerebbero “non ancora”), e la sua sensibilità deve essere modellata. Dunque, le domande che subito dopo sorgono spontanee sono: chi informa i modelli? Su quale set di dati si formano? Qual è il processo di selezione dei dati?

Qui il percorso si biforca perché le fonti dei dati sono connesse agli obiettivi di applicazione: da un lato si prende la direzione dell’estrema personalizzazione, e la fonte è individuale e ben identificata, dall’altro quella della creazione di sistemi che funzionino su larga scala; quindi, il risultato si ottiene dall’analisi di una larghissima disponibilità di dati da fonti variegate, e rappresenta una sintesi (e uno specchio) di un “comune sentire” in un dato momento della nostra storia.

Nel primo caso, ovvero l’estrema personalizzazione in relazione al gusto, i dati forniti sono dichiaratamente e necessariamente arbitrari. La pubblicazione di una ricerca condotta dall’Università di Copenaghen a inizio gennaio 2024, esplora le possibilità di “insegnare” alla tecnologia il gusto, al fine di generare un’accurata modellazione del sapore nell’ambito di un progetto di sviluppo di un algoritmo che possa aiutare a personalizzare gli acquisti dei consumatori e ottimizzare l’ambiente di vendita al dettaglio, ma anche migliorare il proprio stile di vita proponendo alternative a quei cibi dei quali amiamo il gusto ma non sarebbero così salutari (è l’esempio delle alternative plant-based che da qualche anno propone Giuseppe, la piattaforma IA sviluppata da NotCo).

Finora, infatti, i dati si “limitavano” a consigliare, durante una esperienza di acquisto o una ricerca, prodotti con caratteristiche simili (i cari vecchi “ti potrebbero piacere” oppure “altri utenti che hanno scelto XY hanno acquistato anche…”). Qui invece si va nella direzione di fornire un nuovo parametro agli algoritmi, che sia in tutto e per tutto l’alter ego delle papille gustative dell’utente: è ora di introdurre i “gemelli digitali” (digital twins). Un gemello digitale è un modello virtuale progettato per riflettere in modo preciso un oggetto fisico. Finora adottati in diversi settori, dal manifatturiero alla logistica, all’energia, alla sanità, stanno conquistando terreno anche nell’applicazione in ambito alimentare.

Attenzione, non si tratta di semplici simulatori, ma di modelli in grado di eseguire più simulazioni contemporaneamente, acquisendo dati in tempo reale, e aumentando così al massimo le possibilità di migliorare prodotti e processi.

Nel settore alimentare, sono uno strumento per migliorare la sicurezza e l’efficienza dei prodotti, semplificando al tempo stesso le pratiche di produzione lungo tutta la catena di fornitura alimentare. 

Fra i tantissimi impieghi, è la e-tongue che offre degli spunti estremamente interessanti: questa lingua artificiale in grado di rilevare le componenti aromatiche e i gusti simultaneamente non è un sistema di recente applicazione, sappiamo che da anni lingue artificiali sempre più perfezionate esistono e lavorano per noi, ma quello che sta evolvendo nella logica del gemello digitale – per esempio con la Hyper-tongue della IBM – è la complessità di recezione ed elaborazione della percezione. IBM la presenta sul sito come “un framework assistito dall’intelligenza artificiale e basato sui dati per l’analisi supervisionata e non supervisionata di liquidi complessi. Un approccio che si basa sulla combinazione di una pipeline di intelligenza artificiale con hardware multi-sensore straordinariamente semplice da utilizzare in vari ambienti informatici, inclusa l’implementazione come app mobile e la capacità di convalidare la composizione chimica e le proprietà dei prodotti in pochi minuti invece che in ore, a una frazione del costo e anche al di fuori degli ambienti di laboratorio convenzionali”.

Che questi organi digitali possano sostituire il lavoro di un cuoco o di un sommelier è dietro l’angolo, così come potenziare l’imperversare di enogastro-tecnocialtroni, è ovviamente un rovescio della medaglia da tenere presente, ma il lato positivo è più forte, perché con queste evoluzioni si comincia a poter contare su partner efficaci e oggettivi per lo studio, l’aggiornamento, l’analisi con grande beneficio dell’industria, dei professionisti del settore – quelli validi e che sanno come gestire e affinare le proprie competenze – della vita quotidiana.

Su quest’ultimo punto basti pensare all’ambito medicale: “uso dell’ET nell’analisi medica promette di avere un rilevamento batterico rapido e di abbreviare il più possibile il periodo di rilevamento per molti medici, laboratori medici e persino pazienti poiché è un sistema alternativo, rapido, affidabile e altamente sensibile. Oltre a funzionare come tecnica diagnostica grazie ai set di vettori multi-sensore con caratteristiche di elevata sensibilità incrociata e bassa selettività, la lingua digitale sta trovando campo di applicazione nella ricerca per la restituzione della percezione del gusto perso o alterato a seguito di interventi, cure mediche, incidenti, grazie alla possibilità di ricostruire la percezione del gusto. Avere una carta di identità delle proprie papille gustative sarebbe dunque un modo, in un futuro neanche troppo lontano, di poter provare piacere (con le conseguenti importantissime ricadute psicologiche) anche se le condizioni fisiche non lo permetterebbero, così come di conoscere come funzionano i propri recettori e come nel tempo, in caso, questi stiano modificandosi e perché. In epoche non sospette – correva all’incirca l’anno 2007/2008 – a Madrid Fusión lo chef Davide Scabin presentava l’IT (Identity Taste), un progetto molto futuribile per creare una carta d’identità del gusto. Il suo era un kit di autoanalisi con delle soluzioni liquide per i cinque gusti (salato, amaro, acido, piccante, dolce), basate su una scala di 6 punti. Ciascuno avrebbe rilevato, tramite l’assaggio della soluzione spray, il punto di gusto percepito più gradito ricavandone una mappatura con la quale poter personalizzare il gusto percepito di un piatto finale esattamente sulle proprie preferenze e livelli di percezione. Questo avrebbe portato ad avere la possibilità di richiedere piatti cucinati su misura, perfettamente aderenti al personale livello di percezione del gusto (non di preferenza). “All’epoca avevo lanciato la proposta come riflessione sul ruolo della cucina e dello chef” spiega fra le altre cose Scabin, la cui intuizione oggi potrebbe trovare facilmente un vasto campo di applicazione:

“Il gusto è uno dei sensi dei quali si ha ancora pochissima conoscenza. Basti pensare che solo in epoche recenti è stata sfatata la convinzione che i gusti primari siano quattro e siano localizzai in punti precisi della lingua… La strada è lunga e riserverà sicuramente ancora grandi sorprese. L’utilizzo di sofisticati strumenti di analisi così personalizzati potrebbe portarci a capire meglio anche come si forma un gusto in relazione all’ambiente, stile di vita, epoca, e dunque come si forma il gusto fisico e come si relaziona con il gusto ‘culturale’, quello che creiamo prima nella mente per dire che qualcosa ci piace”.

Oggi la maggior parte degli algoritmi sono “mono-modali” ovvero possono generare solo testi o solo immagini o solo suoni, ma si stanno sviluppando anche nuovi algoritmi che tentano di collegare queste differenti modalità, come Gemini di Google: questo significa avere la possibilità di lavorare sulla combinazione fra gusto fisico e gusto culturale, o sulla relazione fra linguaggio e gusto, e proprio dalla possibilità di basarsi su dati estremamente personalizzati combattere pregiudizi e stereotipi.

Neanche l’IA ci libererà dalla zia

Passando dall’iper-personalizzazionecon tutte le sue possibili estensioni più o meno realistiche o realizzabili all’altro ramo di applicazione dell’IA, quella della creazione di sistemi che funzionino su larga scala ecco, qui, purtroppo, raffreddiamo un po’ gli entusiasmi perché bisogna scriverlo in modo esplicito: le IA sono bias based. Ovvero, le IA sono soggette/potenziatrici di derive discriminatorie e preconcetti, e questo è un problema ancora troppo poco discusso, lontano dall’essere risolto e che tocca tutti i campi, dalla prevenzione del crimine fino al calcolo del merito per l’accesso a finanziamenti. 

L’ambito alimentare – dalla produzione al gusto – non ne è esente, a partire dagli strumenti digitali per la protezione dei sistemi agroalimentari dai cambiamenti climatici, dove persistono problemi legati ai pregiudizi e alla mancanza di standard e di qualità dei dati, per finire con gli stereotipi di un piatto della cucina italiana come la carbonara.

Chi poi studia antropologia e sociologia del cibo, sta già analizzando altri problemi ben più gravi a livello geopolitico, perché gusto e olfatto sono due campi in cui il controllo e l’esercizio del potere sono meno evidenti eppure più capillarmente e incisivamente impattanti: dal dolce (gusto e profumo) sempre più dilagante alla “difesa/offesa” (intesa come limitazione, critica, proibizione e simbolo di alterità=pericolo) del “cibo identitario”, gli aspetti sono tanti e poco facilmente intuibili a livello di massa e di percezione comune. E l’algoritmo non sarebbe altro che un nuovo strumento al servizio di questo potere, soprattutto perché l’IA può avere – anzi, ha già – effetti sul modo in cui le future generazioni si formano e apprendono

Nel vecchio secolo si andavano a cercare informazioni su “I Quindici” (vi ho sbloccato un ricordo, eh?), all’alba del nuovo secolo, abbiamo googlato come se non ci fosse un domani. Ma tutto questo è già storia: Microsoft descrive il Copilot come un “AI Companion, sempre pronto ad aiutarti. Copilot ti offre modi più intelligenti per essere più produttivo, creativo e connesso alle persone e alle cose che ti interessano”. 

Trova solo quello che stai cercando. Ottieni risposte pertinenti alle tue domande. E fai acquisti online sapendo che hai ottenuto l’offerta migliore. Ottieni risposte alle tue domande, ispirazione per i tuoi progetti e soluzioni per le attività da completare. Ottieni risposte utili e riepilogate. Trasforma la tua ispirazione in immagini originali straordinarie. E ottieni aiuto per scrivere quando vuoi. È tutto qui, in Copilot in Bing. Basta chiedere!

Zia Sofia Chef – chef e influencer di recente pubblicazione, un pesce insignificante nel mare magnum della tanta fuffa prodotta dalla IA – è un esempio che si presta a far capire la rotta che si sta seguendo (che sia consapevole o meno non è questo il punto). Questo sito, a partire dalla povertà di linguaggio, fatto di una terminologia così standardizzata che farebbe saltare il banco al Bullshit Bingo (non ci bastava una pletora di giovani cucinieri, ci voleva davvero l’IA per l’ennesima serie di ricettine che combinano tradizione e innovazione? O che sono tutte, dico tutte, più o meno descritte come una “esplosione di gusto e colori”, “un trionfo di delizia”? Eddai, per favore, ci bastavano i foodblogger dei primi anni 2000…) per arrivare alla questione visuale, passando per l’elaborazione di piatti che neanche il Menulator dei Jetsons penserebbe, è una delle tante operazioni figlie della tecno-FOMO (fear of missing out), che però fa capire come si amplifichi e si renda accettata la non conoscenza. 

Quando si legge che una preparazione è stata “creata” o “reinterpretata” dall’Intelligenza Artificiale, fa fico perché si pensa che sia qualcosa di superiore e non umano, ma è un pensiero che equivale a credere a Babbo Natale e al villaggetto coi folletti. Le parole, gli ingredienti, le combinazioni aromatiche, le procedure, i possibili abbinamenti e l’aspetto impiattato sono tutti prodotti di informazioni fornite, purtroppamente parlando, da noi mortali, e dipendono da come noi ci collaboriamo e con quali finalità. Noi bipedi a nostra volta siamo il prodotto di un ambiente geografico e culturale che forma e informa innanzitutto i nostri sensi e il nostro modo di codificare e decodificare le informazioni. I bias nascono così, e anche le nostre percezioni di “buono” sono spesso figlie prima della prefigurazione del cervello, e poi del piacere della pancia. Il che fa sì che non esista una risposta univoca, trasversale e definitiva alla domanda “cos’è buono?”: il dato, per piacere all’algoritmo, prima è necessariamente piaciuto a noi. Ma noi chi?

Il professor Montanari, storico dell’alimentazione, ricorda che quando pensiamo al “buono” dobbiamo sempre chiederci “buono per chi?”, tenendo in considerazione le condizioni storiche, economiche, politiche nelle quali un determinato alimento veniva preparato in un certo modo, ed era largamente diffuso. Piaceva per scelta o perché non c’erano alternative? E certe tecniche di preparazione erano per necessità o perché rendevano davvero qualcosa più buona? Cito un esempio per tutti: il grano arso. Fatevela una domanda. E la chiudo qui… Sto semplificando molto un discorso complesso e affascinante, che però è alla base della costruzione di una forma mentale di ragionamento che ci permette di sviluppare la capacità di formulare la richiesta a monte. Che è quello che serve, nel futuro.

I migliori professionisti dell’IA saranno infatti quelli che sapranno meglio formulare i prompt: un prompt è quel testo che, scritto in linguaggio naturale, richiede all’IA generativa di eseguire un’attività specifica. Se il prompt è carente, la risposta sarà molto probabilmente banale quando non fuorviante come quelle della povera zia Sofia chef e influencer digitale, con i suoi piattini di tradizione e innovazione, le curiosità di viaggio da ricerca elementare fatta male, le immagini da fantasy de noantri, e la roboanza delle parole dei suoi creatori (forse) umani che dichiarano di avere “l’ambizione di ridefinire, grazie all’uso dell’intelligenza artificiale, il panorama gastronomico, offrendo agli appassionati di cucina un modo unico di esplorare e apprezzare le ricchezze culinarie delle regioni italiane”. Se non celasse insidie, la cosa farebbe tenerezza, a cominciare dal fatto che usano la zia in cucina per ridefinire il panorama gastronomico con la tecnologia e la creatività. Si diceva degli stereotipi?

La Carbonara col basilico

Da integrata dichiarata, a sorpresa concludo con uno scenario apocalittico, ma seguite il mio ragionamento: giocando con diversi generatori di ricette, tempo fa, chiedo a tutti la carbonara. Con piacere constato che gran parte delle ricette proposte, in varie lingue, sono perlopiù corrette, nessuno strafalcione, tempi di cottura giusti, nessun ingrediente da trattoria turistica (panna) o Italian Sounding (pollo). La maggior parte considera inoltre corretto il guanciale e non la pancetta, ed è giusto così dato che le informazioni acquisite sulle quali lavora l’IA sono tutte recenti, e la pancetta (affumicata) attiene alla cultura carbonara pre-algoritmo con buona pace del debunking del professo Alberto Capatti. Allora passo a chiedere ai diversi generatori di foto, le immagini di un piatto di carbonara. Prima foto, il piatto è decorato col basilico. Modifico il prompt, mi ci mette il prezzemolo. Miglioro ancora il prompt, ma non ce la fa e mi restituisce via via ogni piatto comunque decorato.

Fatico ad arrivare, finalmente, a una carbonara senza qualcosa di verde e ne deduco che l’IA è un cuoco degli anni Ottanta, che si basa su un set di dati che identificano come elemento necessario all’italianità il prezzemolo/basilico o una roba verde tritata a decorare la pasta. 

Un peccato veniale che però ci fa interrogare sul perché accada: girando un po’ per blog e siti di ricette, soprattutto in lingua inglese, annoto che c’è una alta percentuale di foto di carbonare & co. proposte con una decorazione basilico/prezzemolo, in foglia/tritato. Verosimilmente quello che è accaduto è che lo stesso prompt viene dato in pasto (per rimanere in tema) ad algoritmi differenti, uno per le immagini e uno per il testo, che non comunicano tra di loro quindi si ottengono due risposte differenti, per l’IA coerenti. La risposta si è basata su un gusto visivo, che per molti è anche già gusto già largamente acquisito, sul quale adeguiamo l’aspettativa di come nella realtà sarà eseguito e servito il piatto. E quella innocente foglia di basilico della foto generata, che oggi non cambia la ricetta, che anzi neanche è menzionata nella ricetta, diventerà comunque un elemento sine qua non perché man mano quel tipo di immagine sarà diffusa sempre più su larga scala grazie alla capacità di replica e la consultazione delle fonti visuali, diventando prima parte integrante della ricetta foto/video. Poi di quella eseguita. Poi di quella mangiata. Poi di quella scritta codificata. È un battito di ciglia, e avremo il primo purista della carbonara che ci dirà che senza basilico non è la carbonara perfetta.

Quella che piace anche all’algoritmo.

  1. Gli Ushabti – piccole statuette di terracotta che venivano depositate nel sepolcro insieme al defunto perché agissero in suo nome nel regno dei morti – erano conosciuti anche come “quelli che rispondono” visto che, quando il morto era chiamato dagli Dei a svolgere un compito nell’aldilà, erano gli ushabti che rispondevano “sono qui” e lo rimpiazzavano liberandolo dall’obbligo.  ↩︎


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