Al tavolo 25 prendono posto tre vecchie sorridenti. Si tolgono caute lo scialle, niente movimenti bruschi con le spalle, e si siedono lentamente, una mano sullo schienale e una sul ginocchio. Nico, il proprietario, intanto apparecchia tre tovagliette per le signorine. Lì da PizzAut sono tutte signorine, abolito ogni termine che alluda al superamento della mezz’età. Ma se indossano lo scialle… le cose bisogna dirle per come stanno: anziane. Non esiste signorina che dica oplà mentre si siede. macina la testa di Tommaso mentre si aggiusta il suo nuovo grembiule nero. Braccia dietro la schiena, spalle dritte e testa alta, e si avvicina al tavolo. Buonaserasignorinebuonaserasignorineb– il soundtrack nella sua testa.
“Buonasera si-signo-signorine” Tommaso fa due passi indietro, senza dare le spalle al tavolo, come a cancellare gli ultimi due secondi, simulando un video a ritroso a velocità raddoppiata.
“Buonasera signorine!” ora soddisfatto. O forse è stata un’idea di quella cosa che fa cose, perfezionista, entusiasta di tutto. Che vuole solo bicchieri di plastica e taglieri di legno. Esigente.
Al tavolo 13 c’è silenzio. Un lui guarda il soffitto, poi il tavolo 4 e poi il 9, schiena contro lo schienale e mani incrociate sulla pancia, mentre una lei si sistema il boccolo già perfetto, raddrizza la collana già dritta e accavalla le gambe. Hanno scelto deduce Cloe dai segnali di noncuranza nei confronti del menu, mentre tira fuori dal taschino il suo blocchetto, si affianca al tavolo, lancia la penna e la riprende dopo un salto teso con due avvitamenti.
“Pronti per ordinare?” chiede con il suo sorriso migliore, spontaneo, quasi fosse scappato. Gli sguardi di lui e lei si scontrano, come se prima non si fossero visti. Silenzio. Lui chiede ancora due minuti.
“Nessuno problema.” Cloe si allontana e inizia a contare. Mille e Centoventi, mille e centodiciannove. Il tavolo ora allagato da fiumi di parole. Eee zero.
“Pronti per ordinare?” Li interrompe Cloe, fiera della precisione, professionalmente impeccabile.
“Perdonaci, ancora cinque minuti”.
“Nessun problema” Cloe si allontana e la cosa che fa cose ricomincia a contare. Mille e trecento, mille e duecentonovantanove… Vuole precisione, che il tempo sia quello che è. Voleva che, quando un giorno sì e uno no alle elementari Cloe doveva entrare alle dieci perché prima non c’era nessuno per lei, il piede varcasse la porta della classe alle e zero-zero, non un secondo prima, non uno dopo. Mille e novecento… Certo che sono strani quelli normali, potevano chiedere direttamente sette minuti, le sussurra all’orecchio la cosa che fa cose.
Condivide il pensiero con Nico che sta apparecchiando il tavolo 33 e che da otto anni è un po’ una stella polare: lascia che ogni stella macchi il cielo del suo progetto con il proprio disegno galattico, ma è sempre lì, perchè ognuno sappia dove guardare se mai si dovesse sentire perso con le mani in pasta o con una pizza in equilibrio sull’avambraccio, o si fosse dimenticato di essere esattamente dove dovrebbe essere, nel migliore posto sbagliato.
“Hai ragione, sai”. Nico trattiene un sorriso e le accarezza la spalla.
Dal tavolo 33 arriva in cucina la comanda 1 bombazza e 1 regina margherita senza pomodorini. Andrea legge in bacheca. Senza pomodorini…ma non è buona. Non l’avrà mai provata, per forza.
Nel piatto di Andrea il purè non può toccare l’arrosto, il sugo la pasta. La cosa che fa cose non vuole. Ma quando sta dall’altra parte, in cucina, invece è tutto un unicum. Il lievito e la farina e il pomodoro e la mozzarella e il basilico e i pomodorini, tutto una cosa sola. Non si dividono. Stende, condisce e inforna. Campanello e manda in sala. Se proprio non li vorrà li toglierà. Non priverebbe nessuno di quella bontà. La cosa che fa cose vuole che il cliente sia contento. Andrea batte le mani sul grembiule, riallaccia il fiocco e si mette a sistemare le stoviglie sparecchiate dalla sala. Sul bancone c’è un Big Ben di bicchieri, il Final Wooden House giapponese di taglieri e una cascata di forchette sparse. Andrea aggiunge un parafulmini di forchette in cima al Big Ben e porta tutto ai lavandini. Una sola cosa alla volta, come vuole la cosa che fa cose. Prima il Final Wooden House e poi il Big Ben con il parafulmine.
E la cosa che fa cose sta lì, nell’ordinazione presa ora su un piede solo, ora lanciando una penna, nei venti passi per raggiungere il tavolo, uno a piastrella senza pestare il bordo. Vuole un cartonato di Darth Vader armato di spada laser accanto al tavolo 2. Vuole a volte una linea rossa sul tavolo, come quella gialla delle stazioni, che protegga dal treno in corsa del cliente che passa e se ne va e ne arriva un altro, sconosciuto, che passa e se ne va.
E la cosa che fa cose sta lì, nello sfarfallio di gioia per poter uscire e andare A LAVORO. In quell’energia cosmica, a volte dispettosa, a volte invadente, per cui è nata la prima pizzeria in Italia gestita da ragazzi autistici.
Sta lì, a ricordarci che alla fine da vicino nessuno è normale, c’è persino chi la pizza la inizia a mangiare dal cornicione.