C’era una volta il ristorante borghese.
Quello, per intenderci, dello storico Giannino a Milano: 1899, una fiaschetteria con cucina nasceva per diventare il riempi-stomaco (e riempi-anima) prediletto della “classe di mezzo” promessa dal capitalismo e dalla rivoluzione industriale: quelli che non stanno malissimo, quello che non stanno benissimo. Che, comunque, se la godono. Sono gli anni della Milano sconosciuta di Paolo Valera: il libro uscì nel 1879 raccontando la città dell’ombra, gli alberghi pulciosi, il malaffare, le bettole che erano, in fin dei conti, i primi ristoranti (soprattutto nell’area dell’odierna Porta Garibaldi e in quelle che diventeranno le Varesine, notorio luogo di malaffare e prostituzione). Giannino nasce come un mezzo miracolo, o come un’ottima storia di successo: dai margini della città in cui trova prima collocazione, si sposta prima in via Sciesa, poi in via Vittor Pisani. Nel mentre inizia a essere frequentato “dai sciuri”, quelli che vogliono la tavola apparecchiata con tovaglia e tovagliolo. Da lì arrivano le star, Sophia Loren, Grace Kelly, Maria Callas. La cucina è creativa ma di stampo italiano e milanese. Con la gestione del 2006 diventa poi il luogo di ritrovo del Milan e dell’universo che vi gravita attorno – lo zampino è quello di Kakha Kaladze, difensore georgiano della squadra, che entra nella società. I prezzi, oggi, raggiungono le punte massime nei secondi, con la costoletta di vitello a 57 euro, il branzino cotto al sale a 80 euro per due persone, o i filetti di sogliola alla Mugnaia a 55 euro.
A replicare il flair senza però il portato di 125 anni di storia ci prova per esempio Gloria Osteria, davanti al Piccolo Teatro Strehler. Ambiente decadente, porzioni pure di più, cucina ricca di salse e cotillon. Opulenta, pure gustosa, prezzi più contenuti (una costata di manzo Simmental viene 48 euro a persona, la Tagliatelle granchio e limone, 25 euro, un Vintage Martini 25 euro). Ristoranti borghesi perché parlano la lingua del benessere, nel conto e nei piatti, senza strafare (e che si immaginano una clientela di indaffarati che amano aprire belle bottiglie per rilassarsi e stare bene, e che hanno i mezzi economici per farlo e il palato per apprezzarle). O meglio: chi vorrà esagerare, troverà pane per i propri denti. Ma anche chi volesse semplicemente trattarsi bene per una sera potrà, all’uscita, dichiararsi soddisfatto. Ma che cosa succede al ristorante borghese se la borghesia non esiste più?


O, almeno, se non esiste più come quella che conoscevamo, e a cui molti locali, comprese le nuove aperture (Gloria fa parte del Big Mamma Group, ed è arrivato in Italia a fine 2023), tentano ancora di rivolgersi. Se c’è da un lato chi argomenta che la borghesia esiste ancora, ma si è trasformata da industriale a creativa, seguendo dunque la più ampia ristrutturazione delle professioni anche del digitale, chi scrive non può non ritrovarsi in queste parole di Giangiacomo Schiavi, siamo sul Corriere della Sera ed è il 16 aprile 2025: “Oggi si è poveri lavorando – scrive la sociologa Chiara Saraceno – il ceto medio è polverizzato, ma il cibo, la corsa all’outlet, il fine settimana da tutti in coda sono quasi un riflesso pavloviano: se non esci non esisti”. Entrambe le cose possono essere vere allo stesso momento, peraltro.
Naturalmente un ristorante non è mai la soluzione a niente, però può essere un sintomo.
E come tale, ha la facoltà di posizionarsi con intelligenza, coerenza e spirito del tempo, e magari contribuire ad aprire una nuova visione. O almeno, questo viene in mente quando ci si siede (o meglio, ci si riesce a sedere) ai tavoli di Sandì. L’inciso è d’obbligo, perché l’insegna aperta a dicembre 2024 da Laura Santosuosso e Denny Mollica – in cucina lei, in sala e alla carta dei vini lui – è stata l’indirizzo caldo dell’inverno milanese. E pure ora, con le temperature in rialzo, si dimostra su una bella cresta. “I clienti hanno cominciato a prenderla come un’esperienza, soprattutto per il turno serale, visto che abbiamo posti limitati ed è oggettivamente difficile prenotare”, mi dice Mollica, che mi parla di un calendario prenotazioni che sta già cominciando a riempirsi per ottobre.
Ok, c’è il trucco. Sandì è aperto solo a pranzo (12:30-14:30) con giorni di riposo il martedì e il mercoledì. L’unica cena disponibile è quella del venerdì, e come potrete immaginare, la lista d’attesa, per una sala da 40 posti, può essere lunga. Il nome è l’unione dei soprannomi dei due, che fanno coppia nel lavoro ma pure nella vita. Su questa base, si attiva la mistica: c’è chi ci vede il riferimento al dì del desinare meridiano, chi al sabato detto in francese (samedi) e quindi ai lussi del mezzogiorno, chi un mero richiamo alla lingua d’Oltralpe visto che Santosuosso ha passato a Parigi una parte del suo percorso lavorativo (lavorando in indirizzi come Septime e Clamato). Può essere tutto, può essere semplicemente Sandì.
Qualche altra info di servizio: il ristorante (e che bello sentire qualcuno che senza paura si definisce tale, senza bistrot o bar o café nel mezzo, “anche perché noi veniamo dai ristoranti”, sottolinea Mollica, che ha conosciuto Santosuosso da Erba Brusca a Milano) sorge nei locali di un ex panificio. Si trova in via Hayez (zona Viale Abruzzi) ed è stato rimodernato grazie a un progetto del gruppo di designer Parasite 2.0, che ultimamente si sta facendo notare in città per le sue (ri)strutturazioni di stampo ragionatamente retro. Anche l’arredo riporta indietro o forse, per meglio dire, colloca: in un posto dello spazio-tempo che non è davvero ieri. E il menu? Una cucina libera, aderente al suo tempo in quanto non ricerca giustificazioni o validazioni esterne al morso del cliente. La tovaglia bianca e le tendine a scorrimento della vetrina fanno pensare all’arrosto con patate? Magari un’idea di arrosto un giorno arriva pure, si deve vedere come uscirà dalle mani di Santosuosso, che si divertono a fare mille giri per atterrare in un punto stranamente familiare per il commensale (alla fine è una ragazza made in Emilia-Romagna, Modena).
In tutta onestà, però, mi pare più facile che la carta, breve e precisa, reciti: Carciofo cotto nel dashi, fondo all’aglio nero, fondo di patate e katsuobushi (era in carta a 14 euro, quando ci ho cenato io); Carota novella arrosta, salsa Armoricaine e gambero rosa fritto (15 euro); Raviolo di ricotta scanta, burro all’aglio orsino e crusco chilli oil (21 euro); Cavolo cuore e shiitake alla brace, beurre blanc, furikake di porcini (18 euro); Cordon bleu di lombata, servito con purè e fondo (30 euro, non fatevi ingannare dal prezzo, è un’opera meravigliosa e mastodontica). Questa la cena. Per il pranzo, invece, ci sono due accoppiate, dal lunedì al venerdì (ma rimane sempre la possibilità di ordinare anche alla carta): una a 22 euro con antipasto e piatto principale, una a 25 con anche il dolce. La carta dei vini è piccina ma ben curata, spazia in giro per l’Europa e prescinde da dogmatismi e “ultime tendenze”.



“Il menu del pranzo cambia tutti i giorni” ancora Mollica. “Oggi per esempio (conversiamo di nuovo a luglio, nda) abbiamo in carta una Melanzana alla fiamma in scapece con kefir doppia panna e chilli oil di peperone crusco e un piatto principale di Cipolla pallina ripiena con la sua crema e sopra grattato paté di fegatini di pollo”. Anche la cena naturalmente si è aggiornata, dalla stagione fredda. Se alcuni classici ormai già stabiliti rimangono (come le ostriche), ora ci si può imbattere in un Tagliolino con estratto di peperone, burro alla bottarga di tonno rosso e robiola di capra (tra i primi), oppure in una Capasanta grigliata con insalata tiepida di patate e spinaci e salsa olandese al sambuco (tra gli antipasti). Mentre nei secondi è comparso un Pollo con salsa suprême con tartufo nero estivo e funghi cremini.
“Da noi passano tutti, dai pranzi di lavoro agli affezionati che vengono spesso perché sanno che il menu varia costantemente. Dai giovani al settantenne milanese che ritrova un linguaggio che conosce e non quello dei wine bar di stampo contemporaneo. Molti tra quelli che si siedono per pranzo ordinano a menu, di solito quello più lungo, e aggiungono uno o due piatti dalla carta. Quindi il pasto è estremamente libero, può essere rapido e veloce come più lungo e strutturato. Varia l’occasione e varia il costo. Se ci si vuole rilassare, lo si può fare con gran profitto”.
Il risultato, come si sarà intuito, è che da Sandì vorresti avere quello spazietto per un piatto in più, o avere più coraggio e passarci la prossima pausa pranzo anche senza accompagnatori, anche senza un motivo particolare, così per stare bene. Trasformare il mangiar fuori, e pure bene anzi benissimo, non in una corvée, non in un salasso, e non nell’abitudine di sfamarsi è un’impresa che riesce a pochi, ultimamente.
Dunque, Sandì ha tante cose dentro: in primis il tema della flessibilità degli orari lavorativi per chi è impiegato nella ristorazione e a ruota l’annoso work-life balance. Parla delle logiche di sostenibilità di un ristorante che poi altro non è che un’attività economica (una domanda a cui rispondere dopo l’estate: i pranzi a luglio, sono un tema oppure no? Per ora, mi dice Mollica, stanno avendo anche ondate di pienoni inaspettate). Parla della sconsideratezza o magari tutto al contrario, della lungimiranza di avviare un’impresa a conduzione famigliare in questo coacervo storico – Mollica e Santosuosso hanno un piccolino con loro da non molto tempo, Martino. Parla del protagonismo benvenuto e crescente del vegetale in cucina, di stagionalità e del lusso di fare, per una santa volta, le cose un po’ come si vuole.
A me però sembra ci sia anche un’altra modernità, sarà per affinità generazionale, per il menu pranzo, o perché un Sandì a Milano proprio mi mancava.
Cioè, per carità, l’apripista è stato Cesare Battisti, e anche Trippa e Diego Rossi hanno, nel loro grande piccolo, fatto la storia. Diciamo, allora, che Santosuosso e Mollica sono su una direttissima per un certo Olimpo. Di nuova borghesia, più squattrinata ma non meno avvezza allo star bene. Il ristorante borghese è diventato autre chose, gloria all’anima sua. Ma le direzioni da esplorare, anche senza sbarazzarsi di quella parola meravigliosa, che tutto il senso racchiude, ristorante, non mancano. Sandì è una conferma. E io non vedo l’ora di tornarci.