A un certo punto, Viviana Varese mi ha fatto uno sgarbo: ha chiuso il mio posto preferito per andare a far brunch a Milano. Si chiamava Spica, lo aveva aperto con la cheffe indiana Ritu Dalmia, conosciuta in città per Cittamani (e che vi abbiamo raccontato su Cook_inc. 34). Al suo posto, correva il settembre 2023, Dalmia e Varese hanno aperto Polpo, una trattoria di pesce. Il viaggio che comincia con il mio disappunto si concluderà con una sogliola alla mugnaia. Circumnavigando il canone, è bene cominciare dalla fine. La fine di marzo: arrivo all’Hotel Passalacqua sul Lago di Como. È circa un anno spaccato che Viviana Varese ha assunto la guida della cucina del ristorante dell’albergo. Per farlo, ma certo non solo per quello, ha eseguito ciò che nei titoli di giornale viene indicato con “il gran rifiuto alla stella Michelin”. Il risultato sarà pure quello. Nei fatti, però, Varese ha detto basta. Alla ristorazione che rincorre sé stessa per stare in piedi; ai clienti che prendono una cena di lusso – oggi le chiamiamo fine dining – come l’occasione di criticare a fuoco spianato e nulla più. Servendo ancora una volta la ribellione come pièce de résistance. Quella strutturale, che l’ha accompagnata lungo tutta la carriera.
Come donna, Viviana nasce a Salerno nel 1974. Come professionista, la storia è un po’ più lunga (ne abbiamo parlato su Cook_inc. 7 a novembre 2013). Passa dal ristorante di mare e di pizza della famiglia, dal forno, dalle farine, dai lievitati. Attraversa ciò che forse tutti gli ambiziosi ai fornelli devono (e vogliono) attraversare, l’Albereta di Gualtiero Marchesi, El Celler De Can Roca, la cucina di Ángel León, quella di Albert Adrià. Torna in Italia, ma senza piantarsi a terra, nel 1999 – e sarebbe stato facile, date le origini ingombranti. Nel 2007 apre Alice, un ristorante a Milano. Nel 2011 arriva il primo macaron Michelin. Dopo poco, invece, il trasferimento nel contesto di Eataly Smeraldo, sempre sotto la Madonnina. Chi pensava sarebbe stato un traguardo, ci aveva visto storto.

Alla fine di marzo, al Passalacqua, Viviana Varese mi confida una cosa: la famiglia De Santis, proprietaria dell’Hotel, l’ha chiamata per riportare la classicità nella proposta dell’albergo. L’hanno chiesto a lei, che una cucina “tradizionale” non l’ha mai proposta. “So fare la cucina di casa, vengo da lì. A fare la pizza ho cominciato a sette anni. Il problema è che tutta la cucina fuori dal ristorante è cucina di casa. Ho capito che mi stavano chiedendo la loro. Mi sono seduta con loro a cena, così ho capito”. Ne è uscito un menu rigoroso, filetto alla Rossini, pithivier d’agnello, caviale, patata sfogliata con tuorlo d’uovo, un timballo di maccheroni con ragù di carne e il suo sugo, o “sangue di San Gennaro”. Sono esempi, si potrebbe continuare. C’è il Sud, c’è la Francia. Il motivo esiste.
“In cucina cerco la profondità, voglio capire perché si mangia quello che si mangia. Io arrivo dalla tradizione partenopea, che già è infinita. Poi quattro anni fa ho aperto un locale in Sicilia (oggi chiuso, nda) e ho incrociato la cucina monsù, mastodontica. Era quello che si mangiava nelle grandi case nobili del Regno delle Due Sicilie con i Borbone, il cibo che oggi assoceremmo al Gattopardo. Una cucina nobile, di corte, che, come tale, era passata dalla Francia. Io però non ho mai lavorato in Francia, e non ho mai sviluppato una cucina filofrancese. Per arrivare alla proposta che abbiamo oggi, mi sono messa ancora una volta a studiare”. Così rintraccia il possibile menu di una giornata qualsiasi in una villa del Sette-Ottocento. La storia della cucina per come la conosciamo, di ristorante insomma, comincia con il Rinascimento e i suoi banchetti. Caterina De’ Medici, Luigi XIV. Incontriamo i primi chef, ogni piatto è ricco e decorato – in fondo l’opulenza della tavola equivale al potere e al prestigio dell’ospite – ma soprattutto è freddo. “Offrendo ingredienti esotici si dimostrava di avere abbastanza denaro da farli arrivare. L’alta cucina era globalizzata, lo si vede anche nelle illustrazioni dei banchetti, dove ritroviamo sempre gli ananas, per esempio”. Le spezie arrivavano dall’America, il caviale dalla Russia. I grandi ricchi si sposavano e con loro si univano ingredienti e cucine.
“Le classi basse invece mangiavano patate e baccalà, cose umili. Al Sud c’era tanta pasta. Le cose cominciano a cambiare, culturalmente, quando dal servizio alla francese, appunto freddo e tutto in tavola, si passa a quello alla russa, dove le portate vengono servite calde, una alla volta, impiattate. La cucina monsù (e dunque borbonica) arriva da questo movimento storico e nobiliare. È poi questa la cucina da cui ha avuto origine il ristorante contemporaneo, allora la cucina monsù è quella di tutta Italia, non solo del Sud. Anche il riso sembra un’ovvietà che si coltivi al Nord e invece i primi campi furono al Sud, a secco. Poi Cavour lottizzò l’agricoltura italiana e decise di spostarlo al Nord”. Se sembra un gran casino, a tratti, è perché lo è. O almeno, Viviana mi dice che “tornare alla cucina classica è molto più complesso che fare quella moderna, d’autore anche se non per forza avanguardista o sperimentale. Questo perché la tradizione non è razionalizzata, non è precisa né pesata. E poi si usano ingredienti quasi proibitivi, oggi: chi la vede mai un’aragosta? È una cucina di grandi fondi. L’accento, nel moderno, si è spostato sulla materia prima”.


Ancora non le ho detto di Spica. Me lo segno mentre, seguendo la corrente, finiamo a parlare di pirati. “C’è la sala con il pianoforte, anche questo è molto classico e fa un po’ impressione. Si passa dalla cucina, che è il regno dei corsari e dei galeotti, a questa raffinatezza. I camerieri danzano quasi”, dice la cheffe, e io la vedo proprio la scena, come il piano sequenza in Quei bravi ragazzi. Tutto è sinuoso. Nasconde il fuoco e le fiamme.
Viviana ha la pelle temprata, però. Non a caso il fuoco sta alla base di una sua altra recente apertura, ancora a Milano, via Arnaldo da Brescia 5. Si chiama Faak e il menu si basa sulla brace, sul ferro, sulla griglia. “Tutti vogliono Faak, da quando offriamo il brunch soprattutto. Siamo aperti da un anno ma stiamo ancora aggiungendo e modificando”. Faak è pizza, cucina, colazione, pranzo e cena. Fuck! vien da dire, traslitterando l’educazione del nome. “Dentro sono burrascosa, ribelle, persino pop. È parte di me, è una parte di me. Faak è la Campania, la maglietta a maniche corte, l’urlo quando ci scappa. È anche la nostra pizza marinara, la mia preferita”. Lì, la fanno con l’aioli.



Comunque, la vita non se l’è resa più semplice, cheffe Varese, aprendo due locali nuovi. Milano “è strana, in questo momento non la capisco. Stanno scomparendo i locali di quartiere, e in generale è difficile fidelizzare il cliente. Il milanese vuole provare qualcosa di nuovo ogni settimana, il mercato cerca di correre dietro a questi bisogni momentanei e si genera un su e giù che coinvolge tutti senza distribuire benefici. Il personale non è stabile, ce lo si frega tra colleghi. Per darci struttura da Faak, per esempio, abbiamo diviso la squadra su tre turni, così da garantire a tutti orari e riposi coerenti. Lato avventore, per ora abbiamo cercato di tenere i prezzi bassi il più possibile, ma con i rincari degli ingredienti che viaggiano sul 15%-20% in sei mesi, saremo costretti ad aumentare. Ci sono tanti costi nascosti, trasporti su tutti. La verità è che far cibo di qualità oggi non costa poco e non può costare poco. Se la ristorazione non ha questa visione, ma solo quella del profitto sul breve termine, si generano le storture: mafia di nome e di fatto, aperture che non creano vera ricchezza, e intanto i prezzi salgono per tutti”.
Continua: “In generale si sta abbassando la qualità, tanti fanno ristorazione a partire dai semilavorati e il cliente non se ne accorge neanche. La competenza in materia di cibo è molto bassa, in più non si hanno soldi da spendere in frivolezze. Vogliono solo uscire fuori, stare bene, bere un bicchiere di vino e mangiare due cosine. Staccare la testa. non interessa più sapere che cosa si mangia davvero, da dove arriva, chi l’ha fatto. Per questo secondo me la sostenibilità vera oggi, nel cibo, non esiste. Nessuno parla più degli artigiani. La cucina di mercato lo sarà pure, ma il “mercato” si chiama Metro”.
In questo ragionamento, naturalmente, sta dentro anche la crisi che ha coinvolto il fine dining, la cucina alta e d’autore di cui Viviana Varese si è sempre fatta portatrice. Che cos’è l’alta cucina nel 2025, non lo sa più nemmeno lei. “Capisci, a me sembra che quello che stiamo facendo adesso è la vera rivoluzione. Dire che apro una pizzeria con brace, che apro una trattoria di pesce. Che me ne vado da un posto, Eataly, che mi ha fatto sentire viva, che mi ha dato ricordi bellissimi. Quante feste che ho fatto lì dentro”. E poi il successo, l’internazionalità. Chi se la ricorda, la Viviana Varese di ViVa e della stella Michelin? La donna che ho davanti ora no, non ne sa niente. Ha la capacità di cancellare. “Sono stati anni in cui la cucina alta era davvero al top. Gli chef erano dei mezzi dèi, andavamo in giro per il mondo”.









Come si passa da un Concorde a un ristorante di “semplicemente pesce” com’è Polpo (pardon, il vecchio Spica, io non dimentico)? È la seconda domanda e in testa cominciano a frullarmi delle cose. Anche qui pare un colpo di matto: la ristorazione di pesce a Milano è concentrata, abitudinaria e tendenzialmente di lunga data. I giovani vengono attirati dalle insegne più cool, Pescetto, Pescaria, un sushi fusion o no, e avanti così. Polpo ha le carte per essere una vecchia dama, ma l’età e la frizzantezza di menu di uno scugnizzo. È un lungomare costiero trapiantato in città, plateau di crudi ma anche di cotti (sic!), ostriche, pulpo alla gallega, paste e pesce, verdure e fritti. È la wild card in mano a Viviana Varese: ispirazione anni Ottanta, piatti che non eccedono ma che tengono a mente il benessere (del palato), qui c’è un’idea ed è rischioso. Non sarebbe il locale in cui andare only for a night, appunto.
È un casino ed è ben organizzato. Viviana nel tracciato non ci sa stare, se non in quello della cucina, alle regole della cucina. “Devi mettere da parte qualcosa, essere una persona… diversa. Dico che ho dovuto lasciare da parte il tempo per me stessa, subito dopo penso che, be’, proprio questo è il mio tempo. Non si riesce a riposare, come faccio, se penso sempre alla cucina? Il cibo è connesso alla vita, filosoficamente e praticamente”.
È qui che dovrei chiederle della morte di Spica. Invece, per qualche vergogna, batto in ritirata. Meglio parlare dell’altro elefante in questa stanza, anzi, in questo albergo. “Non ci giro attorno: essere donna mi ha favorito a livello mediatico. Siamo di meno, spicchiamo di più. Questo da un lato, dall’altro ci sono tutte gli intoppi, reali, che conosciamo. Nel mio caso, si è trattato di difficoltà legate alla gestione delle squadre: se sei donna e urli ti percepiscono isterica, non autoritaria; se ti emozioni sei una femminuccia, eccetera”.
Ah. E io che pensavo a qualcosa sulla Rossa, guida delle guide. Ma qui torniamo a qualcosa che dicevamo prima. A una ristorazione che si fa forzosamente più esclusiva, e che, invece di escogitare strategie di comodo, dovrebbe (ri)prendere coscienza di sé. E usare lo stallo come spunto per ricominciare. “La ristorazione è arrivata a un punto di involuzione, ma va bene così. I giovani stanno facendo rinascere le osterie, formule che possono essere veramente informali. L’alta cucina non deve sparire, ma ha bisogno di ripensarsi. Darsi e dare significato, imporsi sul cliente con il suo valore, naturalmente morale e culturale prima che monetario. In altre parole: deve tornare a essere per pochi, o per poco. Era lo spirito, appunto, anche della Michelin delle origini: vale il viaggio?”. Al netto, ma non bisogna nemmeno specificarlo, delle gomme consumate e dell’editore retrostante. “Non so se a Passalacqua prenderemo la stella. Quello che so è che questo albergo è esattamente il posto che sarebbe stato incluso in una guida degli albori, nata per i ricchi che andavano negli château esclusivi. Mangiare bene anzi benissimo, sedersi al tavolo di un ristorante stellato deve essere una celebrazione, l’occasione per una festa. Devo sapere che lì mi mi tratteranno come un re, non che mi verrà servito un cavoletto coltivato sulla luna. Pura, semplice, onestà”.
Nel frattempo, dopo aver frequentato le migliori cucine del mondo, Viviana Varese si diverte con gli eventi e i catering. Grossi, in Marocco, a Budapest, nel deserto, in India… e via così. “È come aprire un ristorante ogni volta ed è anche uno spettacolo, uno show di teatro. Adrenalina”. Eccola qui, la parola che cercavo per descrivere Viviana. Già (e sempre) collocata al futuro. “Vorrei trasferirmi a Mallorca, un giorno. Magari ci apro una pizzeria, o sarò ancora la cheffe del ristorante di un albergo, chi lo sa. Sembra mi venga bene. Ora non posso pensare a nuovi progetti, ne ho tre e vanno fortificati”.


Non ha fretta, Viviana, però è una che va. Instagram? Deleterio, non sviluppa la creatività, insegna a copiare (male). “Il tuo percorso come chef va di pari passo con la tua vita. Non puoi fare IL piatto a vent’anni, nemmeno se hai iniziato a quindici. Non lo puoi fare nemmeno a trent’anni, se non sei un talento vero. Quello che serve in cucina sono i viaggi, la cultura, il palato, e poi anche la famiglia. Servi quello che sei e che sei stato, quello che hai mangiato”. In caso contrario, manca la struttura.
A me invece, ora che ci ho pensato, manca quel brunch che mi faceva stare tanto bene. Vabbè, ho capito, proverò da Faak (dove fanno anche corsi di cucina, per inciso…). Stavo per fare l’appunto alla cheffe quando è arrivata la mia sole meunière. Lì mi sono dimenticata di tutto. Ripensavo a un sontuoso intingolo al burro in un sontuoso hotel italiano. Tutto sembrava al suo posto. Con o senza la stella.