Intervista
museo in osteria
Rigenerazione urbana e design sistemico
Intervista a Gianluca Bocchetta, CEO e Founder di Velvet Studio, per parlare della narrazione tridimensionale di MURO, Osteria Contemporanea
Testo di
Sandra Salerno
Foto cortesia
Rigenerazione urbana e design sistemico
6 minuti

MURO Osteria Contemporanea è uno dei luoghi più gettonati e frequentati degli ultimi mesi in città. Sarà per la proposta, sarà per le persone che lo abitano. Sarà per il luogo, quella parte di Torino che guarda a Milano, non solo nel nome, Barriera di Milano. Un quartiere spesso dimenticato ma che nasconde grandi potenzialità, artistiche e architettoniche. Un luogo che pulsa energia e che è in continua trasformazione.

Ne abbiamo parlato con Gianluca Bocchetta, CEO e Founder di Velvet Studio, che dopo diverse esperienze e progetti tra New York, Miami e Parigi è tornato a Torino. Perché per Bocchetta Torino Is the place to be. Velvet Studio che, secondo il suo fondatore, non progetta solo spazi ma crea esperienze, dove architettura e design si fondono in una visione unitaria, dove ogni progetto è concepito come una narrazione tridimensionale. E MURO, osteria contemporanea con piatti della tradizione italiana e prezzi accessibili all’interno del Museo d’Arte Ettore Fico è uno di questi progetti tanto creativi quanto antropologici.

Ci racconta il concetto sostenibilità che non guarda al food ma si rivolge all’idea di rigenerazione urbana e al design sistemico?

Partirei dal design sistemico, che a mio parere è la cosa più interessante. Prima, da professionista indipendente nel mondo del design, mi sono occupato di interior design prodotto. In questi ultimi anni, da quando l’attenzione si è spostata più verso l’antropologia, l’esperienza e il comportamento, ho iniziato a progettare qualcosa che andava oltre al complemento e al prodotto. Pensare di più a un sistema più complesso, così ci siamo approcciati di più alla rigenerazione urbana applicandola al quartiere che ci ospita e dove viviamo, Barriera di Milano. Ho casa all’interno dello studio. Avevo già vissuto qui, ma sono voluto tornare in questo quartiere, ho deciso di viverlo realmente, nel senso di voler fare qualcosa per rigeneralo, narrarlo, per comunicare quali che sono i patrimoni architettonici e culturali di questa parte di città, un vero e proprio distretto.

Così è nata l’associazione Barriera Design District?

Sì, e con essa abbiamo iniziato a mappare le realtà che esistevano, compreso il museo Ettore Fico e scoperto questo bar, rimasto inutilizzato post Covid. Abbiamo deciso di acquisirlo. Parliamo e progettiamo di esperienza e di ospitalità, progettiamo retail. Abbiamo chiamato a raccolta tutte le nostre skill sulla progettazione e abbiamo pensato di creare qualcosa di nostro, partendo dalle relazioni umane che già avevamo. Iniziato a disegnare e progettare qualcosa di più ampio, così è nato Muro.

Velvet Studio che cosa può dare di innovativo all’architettura food & hospitality?

Cerchiamo di spingere le iniziative verso l’esperienza, quella che secondo noi è la nostra abilità, desideriamo disegnare questa piuttosto che un luogo, un oggetto o una forma. Un valore che va al di là di quello e vogliamo continuare a viaggiare su questo filone dedicato alle esperienze: giusto contesto, location anticonformista. A mio parere l’innovazione deve guardare anche indietro, al passato. Oggi l’offerta supera di molto la domanda e credo che non sia necessario fare per forza qualcosa di ‘diverso’ ma qualcosa di giusto. Non siamo obbligati a stravolgere il pensiero dei committenti, ma seguire le richieste per realizzare quello che hanno in mente. Non guardare alle tendenze perché mentre stai costruendo (letteralmente) diventano vecchie.

Quando ha pensato a MURO che tipo di anima si immaginava

Muro è nata proprio dalla location, dal luogo: Barriera di Milano, una periferia più fisica che mentale. Ci siamo detti: come trasformare una Barriera (che una volta era il Dazio della città di Torino) dargli nobiltà? E cos’è una barriera? Un MURO. In più con il museo che parla e dialoga con l’arte contemporanea. E qual è l’emblema, l’oggetto dove l’arte è libera? Il muro e il writing fanno parte dell’anima della città. Il locale è tendenzialmente questo: un luogo dove puoi mangiare qualcosa di diverso senza nessun obbligo, accessibile a tutti, facile da comprendere, dove puoi ammirare un quadro, diverse installazioni senza dover per forza pagare un biglietto, senza dover per forza conoscere l’arte contemporanea in un ambiente esclusivo. Osteria Contemporanea: Osteria è l’emblema di un luogo democratico.

Invece la Galleria d’Arte Contemporanea è l’emblema di un luogo dedicato a una nicchia di persone interessate all’arte. L’arte deve essere per tutti, secondo noi è così. In questi primi mesi abbiamo appeso ai muri delle opere senza titolo, delle affiche. Poi nel tempo cambieranno, piccole mostre di artisti locali ma non solo. Anche la cucina è un pezzo di arte contemporanea. La cucina l’ha disegnata uno street artist, dentro è piena di graffiti, un bravissimo writer, Edoardo Bansone. Il Museo in Osteria, quindi non significa essere alternativi ad altri posti, l’alternativa ai locali del centro di Torino, ma dare il giusto peso a questi luoghi. Siamo una proposta diversa, in un quartiere e contesto diverso. E dovrebbe essere così ovunque, perché ogni quartiere ha la sua identità. Con noi in questo progetto anche Matteo Borgnino, che gestisce la sala e dell’ospitalità e Federico Verri, il sommellier. Un team giovane e dinamico per un luogo sempre in movimento.

Ha scelto Torino invece di Parigi, Londra o New York perché crede in questa città? Al suo futuro?

È una cosa di cui, ultimamente, sto parlando moltissimo, me lo stanno chiedendo spesso. È venuto naturale tornare, anche se sono cresciuto in periferia, a Venaria Reale. Il mio percorso è iniziato a Torino, proprio perché arrivavo da una cittadina di provincia. Da lì poi sono partito per esperienze lavorative all’estero dove incontravo iniziative stupende di progettazione sistemica, interi quartieri rigenerati. Torino ha molte zone dove si può applicare la progettazione sistemica, amo tutto quello che già c’è di costruito, che fa parte della mia dimensione. In realtà non ho mai pensato di trasferirmi ‘fuori’ ma piuttosto di lavorare fuori per poi tornare. Ho bisogno di viaggiare per percepire spunti, nuovi stimoli.

Può sembrare un assurdo ma ritrovo tanta Torino fuori da Torino. Il patrimonio architettonico che abbiamo è immenso. Se siamo creativi e vogliamo lavorare in questo ambito, la prima cosa che dobbiamo fare è applicare questa creatività nel luogo in cui viviamo e progettiamo. Anche se sarebbe molto più facile lavorare all’estero per diversi fattori, non ultimo quello burocratico. Fare ristorazione in Italia è complicato. E fare design nel mondo della ristorazione a livello normativo lo è altrettanto. Ma sono norme igienico sanitarie vere, giuste e necessarie.

Stiamo costruendo il Distretto di Barriera Design District, mi sento nel posto in cui vorrei stare e sono convinto che tra 10 anni, quando lo vedremo da fuori, sarà il luogo che abbiamo sempre desiderato.

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MURO

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