Mini-storia
Cucina contemporanea
Il gusto archetipico, ma come non l’avete mai provato
Materia, tecnica e creatività si fondono in un’esperienza gastronomica al ristorante di Andrea Aprea a Milano
Testo di Elisa Venco
Foto cortesia
Il gusto archetipico, ma come non l’avete mai provato
7 minuti

Ci sono tre motivi per cui mangiare da Andrea Aprea a Milano. Il primo è la cucina “tradizionale” di Andrea Aprea; il secondo è la cucina contemporanea di Andrea Aprea; il terzo è il ristorante di Andrea Aprea.

Cominciamo dall’ultimo punto: situato all’ultimo piano della Fondazione Rovati, l’ultima gemma nel panorama museale di Milano, il ristorante, che regala una splendida vista sui giardini di Palestro, è un’emanazione dello chef. Tutto è custom made – dai tavoli ai vasi da fiori, dalle stoviglie alla cucina a vista – e frutto della progettazione fatta da Aprea durante il Covid. “Allora tanti mi chiedevano: ma come, rinunci al Vun, un ristorante che è stato il primo in un hotel a ottenere in Italia la stella Michelin? Per di più il momento sembrava folle per un’iniziativa imprenditoriale”. Invece a posteriori Aprea ha avuto ragione e il suo ristorante, in cui non ha soci o investitori, conta oggi 40 dipendenti e una schiera di clienti affezionati, che non coincidono però con i visitatori del museo.

“Ormai siamo una destinazione”.

Sottolinea lo chef, per quanto sinergie con lo splendido Museo sottostante esistano. “Ogni volta che organizziamo eventi, al ristorante o al bistrot, cerchiamo di insistere per inserire un’ora di visita al museo” spiega Aprea. “In questo modo si realizza un win win: le persone ci guadagnano dal trovare un ambiente culturale stimolante; d’altra parte, i visitatori del museo possono scoprire che al suo interno, oltre al bistrot, c’è un ristorante che propone cose valide. Quanto a me, mi basta entrare e veder il giardino interno per cambiare il mio atteggiamento mentale: la bellezza aiuta a concentrarsi”.

E veniamo quindi alla cucina, che prevede tre percorsi gastronomici: Contemporaneità, un percorso di cinque portate dedicato al rapporto tra memoria e innovazione; Partenope, viaggio in sei portate nelle suggestioni della Campania; Signature, otto piatti che descrivono la visione di cucina e il percorso di Aprea.

Contemporaneità è un ritratto di quello che io sono adesso”, spiega lo chef: il menu cioè rappresenta una cucina con salde radici italiane, ma con una parte di innovazione. Piccione, anguilla, melograno e cavolfiore è l’unico piatto assaggiato da chi scrive che rientra in questo menu, ma è sufficiente a mostrare, con ingredienti nazionali, la delicatezza del gioco di equilibri tra acidità, umami, con il tocco lungo dell’affumicatura dell’anguilla, che resta sulla lingua anche a pietanza terminata. Un altro esempio di innovazione riguarda le materie prime, come il recente utilizzo della pompia, “un agrume sardo, che ho scoperto in vacanza, con cui sto sperimentando un riso. Mia moglie impazzisce: mi rimprovera perché anche in ferie continuo ad assaggiare e fare ricerca e così non mi rilasso mai” racconta Aprea.

Il menu Partenope, per il napoletano Aprea, rappresenta invece il sapore del passato “sotto mentite spoglie”. “Rapportarsi a qualcosa di noto, cioè con la tradizione napoletana e italiana, accresce il livello di rischio perché il tuo cliente ha un termine di paragone e sa confrontare il gusto del tuo piatto con quello che ha in mente” ci spiega Aprea. Ciò non toglie un’evoluzione nelle preparazioni, evitando lo strutto o il burro, perché ormai anche il salutismo ha il suo peso. Ma in realtà tutti i piatti, finanche quelli apparentemente semplici, e tipici della tradizione napoletana, sono stati totalmente rivisti. Un caso eclatante è la celeberrima Caprese dolce e salata, per mettere a punto la quale lo chef ha impiegato tre anni a Napoli e altri tre a Milano. “All’inizio volevo rifare una mozzarella e poi mi è venuta l’idea di mettere il liquido della mozzarella in frigo perché le proteine coagulano e diventa elastico. Volevo fare una sorta di caglio, ma poi abbiamo provato a fare una specie di crosta con lo zucchero soffiato perché la meringa non veniva. Lo zucchero ci sta bene con la parte dolce del latte di bufala”. Il risultato è una finta mozzarella, il cui guscio delicatissimo si sfalda al primo contatto svelando un cuore di basilico e pomodoro irresistibile anche per chi (come chi scrive) non ama i formaggi. Altre volte invece i piatti nascono in due settimane e a ogni cambio trimestrale di menu, almeno il 50% dei piatti finisce in archivio.

E qui sta un altro elemento decisivo per la cucina di Aprea: la pianificazione, che per lo chef “ha lo stesso valore della creatività. Perché io prima sono stato un cuoco e ora sono uno chef, che vuol dire che sono il capo e che ho delle responsabilità”. In accordo con Ferran Adrià, che alla scorsa edizione di Identità Golose, ha affermato che chi guida una cucina deve necessariamente saperne di economia, Aprea insiste sul ruolo dello chef -imprenditore: “Io ho sempre bramato la responsabilità e me la sono presa; non me l’hanno data” sottolinea. “A 29 anni e 8 mesi gestivo 23 persone al ristorante Comandante dell’hotel Romeo di Napoli. E anche oggi il pensiero che domina qui è tutto mio, tanto nell’organizzazione quanto nel menu, dal primo al dolce”. La coerenza non fa difetto ad Aprea e neppure la chiarezza di idee e di giudizio: al punto che lo chef rivela di aver capito di essere sulla strada giusta con la Patata in stagnola all’amatriciana, “perché lì il messaggio arriva netto”. In effetti, il comun denominatore di molte delle ricette Signature degustate da chi scrive, come già per il menu Partenope:

è l’impressione precisa di assaggiare qualcosa di familiare in una forma inedita.

Facendo un parallelo con il museo Rovati, che ospita vestigia etrusche, è come se sotto la raffinatezza apparentemente semplice della superba patata al purgatorio o dell’ottimo polpo alla luciana, rinato con due neri diversi (da polpo e da moscardini) si riconoscesse un archetipo gustativo, ovvero il sapore che tutti conosciamo, ma riattualizzato. Un cortocircuito temporale che fa fare avanti e indietro nel tempo con una scioltezza che pare il salto di Guido Cavalcanti narrato nelle Lezioni americane di Calvino. Insomma, nonostante le due stelle Michelin, il commensale non deve concentrarsi per “capire” il piatto: il piacere e il gusto sono gli elementi centrali, insieme a una piccola parte di sorpresa, come nella scherzosa riproposizione del rituale milanese dell’Aperitivo (in cui lo spritz è una pallina dall’intero liquido che lascia sulla lingua il sapore della foglia ostrica), accompagnato da un solido cocktail di gamberi, patatine e da una finta oliva agrumata dal sapore esplosivo.

Oggi che Aprea è diventato uno chef “milanese” (e non a caso la sua massima soddisfazione è stata la cena per la prima della Scala, preparata lo scorso 7 dicembre su ispirazione verdiana) i suoi clienti si dividono principalmente in due tipologie: da un lato “ci sono quelli che mi hanno visto in tv (Aprea è il giudice tecnico di Celebrity Chef, con Alessandro Borghese e Maddalena Fossati); dall’altro  i gourmet che leggono le guide” e che probabilmente apprezzano anche l’eccellente servizio di wine pairing (che spazia dalla birra ai vini libanesi). “Però vengono anche tante famiglie, che ritornano, e clienti singoli” dichiara lo chef. Che confessa che quest’ultima tipologia lo riempie di gioia, perché sigla il predominio del piacere del palato su ogni altra considerazione. “Onestamente, potrei vendere il tavolo a due persone e guadagnare di più. Invece io questi clienti singoli li capisco: a volte il piacere di un piatto che conosci richiede di starci a tu per tu”.

È per questo che lo chef bistellato, che da Napoli si è fatto strada a Milano, ogni lunedì a pranzo va a mangiarsi una pizza: lo fa da solo, senza telefono, come quando era un ragazzo, perché, al ristorante come nel privato, a guidarlo è il puro godimento di ritrovare un sapore familiare, fatto come si deve.

Posto
Europa/Italia/Lombardia/Milano
Andrea Aprea

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