Mini-storia
Nuova Cucina Rurale
Al Madrigale di Tivoli: lo sguardo mediterraneo della ruralità fine dining
Una nuova insegna nella provincia romata firmata Andrea La Caita, sotto il timbro culinario di Gian Marco Bianchi & Daniele Lippi
Al Madrigale di Tivoli: lo sguardo mediterraneo della ruralità fine dining
7 minuti

Intrepide visioni fine-dining fuori città. La tendenza nel decentrare tappe gourmand oltre le metropoli ha accompagnato decenni del nostro Stivale, ma negli ultimi anni questa metrica sta tornando a suggellare stimolanti aperture che segnano un ricongiungersi con territori defilati. Spesso anche con maggiore appartenenza del passato. Nel cuore nevralgico di Tivoli, in provincia di Roma, Andrea La Caita ha mobilitato una riqualificazione monumentale intercettando diverse fasce ristorative e mettendo in campo progetti dal fine ben più nobile di una sterile programmazione aziendalista: ristoratore e imprenditore di lungo corso, ha infatti sancito il proprio imprinting nel settore in questi lidi, presso l’ex-stellato Vesta (chiuso per cause strutturali) e a La Sibilla durante la sua migliore gestione. Entrambe realtà che in questo Comune pregno di perle archeologiche (con tanto di Ville storiche da Patrimonio Unesco), donarono fermento a un tessuto ristorativo tendenzialmente scarico. Dopo aver inanellato format di successo su Roma (Acquolina, Velo e Alto solo per menzionarne alcuni) La Caita ha scelto di riconnettersi con la piazza di Tivoli in un’impresa ambiziosa, dettata da cuore, intuito e consapevolezza. Parleremo in altri episodi degli indirizzi già consolidati, concentrandoci sulla recente inaugurazione del ristorante Al Madrigale.

Culture ancestrali dall’entroterra alle sponde costiere

Il nome è già un’ode lirica agli intenti di rivalsa agropastorale, in combo al sottotitolo dell’insegna che recita Nuova Cucina Rurale. Perché, citando Andrea: “Se con Acquolina cercavamo una narrazione del Mediterraneo proiettato dalle coste in mare aperto, toccando qualsiasi cultura e civiltà del bacino acquatico – spiega – qui il tentativo è di coniare un raccordo mediterraneo scaturito dalla transumanza, dai moti contadini capaci di tracciare usanze gastronomiche uniche oscillando tra campagne e alture montane sino ai confini salmastri. Come un tragitto fatto di cotture arcaiche e ritualità in movimento che dall’Abruzzo o da Amatrice sfociano nel Tavoliere delle Puglie”. La connessione con il ristoro bistellato dell’hotel The First nella Capitale vede un elemento fisico oltre che filosofico, in quanto lo chef Daniele Lippi (del ristorante Acquolina) affiancherà la linea del menu in tandem col talentuoso resident Gian Marco Bianchi: cuoco dai natali indigeni e dall’ampio bagaglio d’esperienze sia all’estero che in Italia, capace di esprimere una fruttuosa alchimia con Lippi, oltre al suo lodevole approccio rivolto in toto alla concretezza esecutiva.

Ideologia scolpita tra spazio, materia e momenti

Sostanza che si ritrova nei dettagli (scrupolosi) degli ambienti, dove arte, storia e artigianato interpretano un ruolo di spicco: arredi materici in legno, marmo e ferro lavorato dall’artista Yatran Stenico convivono con cementine antiche dei pavimenti e caloriferi in ghisa restaurati dal vecchio ospedale di Tivoli. Le sculture a sfondo mitologico di Gianni Lopez e le opere di Marco di Priamo si irradiano di illuminazioni garbate in atmosfere avvolgenti, indirizzando gli ospiti in una sala su due livelli, divisa da tre momenti cardine che donano ritmo all’esperienza. Nel piano principale – dopo aver sfogliato il menu rilegato in pelle d’anguilla dagli artigiani Consani e Giannini – si assapora l’aperitivo con snack espressi dalla cucina e cocktail di grande levatura (delizioso sia L’Orto a base di carciofo che l’amaricante miscelato imperniato sulla Ruta).

Una dimensione raccolta, che sedimenta i sensi in previsione dei due percorsi degustazione selezionabili (oltre la carta): il Misera/Mente dedito alla cucina contadina dalle radici umili e altrettanto simboliche per narrare una tradizione in divenire; il Migra/Zione, che celebra le influenze contaminate e rurali dell’hinterland, in rotta dalla Valle dell’Aniene sino alle sponde del mare. Salendo una piccola scala a chiocciola in metallo, si accede al piano superiore e al secondo “step” dell’esperienza. Una breve quanto efficace sosta con affaccio sulla cucina a vista dove proprio lo chef Bianchi serve un condensato di romanità contadina: Cacio e pere in guisa di snack con meringa alle pere, mantecato di stracchino di capra (dell’azienda viterbese Monte Jugo), pera nature, polvere di ginepro, timo limone e un tonificante infuso caldo alle pere con fieno e camomilla. Si accede poi alla sala principale per il momento portante del pasto, lasciando lo sguardo tutt’altro che indifferente dinnanzi alla grazia estetica dello spazio. Regia del servizio è affidata a un performante Danilo Alessi, che si destreggia tra una selezione di etichette nazionali ed estere in ciclico aggiornamento.

Memorie recondite riplasmate con classe

I nostri assaggi dal menu degustazione evidenziano le eclettiche capacità di Bianchi e Lippi nel saper estrarre una verve creativa da preparazioni associabili ai ricettari più reconditi e popolani dell’abbecedario gastronomico territoriale. Un’identità acuta e franca come il temperamento di sagaci pastori, ma carica di quella finezza che solo Madre Terra sa generare in natura. Le doti nella panificazione si apprezzano con la pagnotta di Solina, Saragolla e patate, servita con olio extra vergine alla rotonda di Tivoli, Itrana e Frantoio, oltre a un drogoso burro pimpato con colatura di alici. La rilettura insaccata della Ventricina con carne di pecora stagionata 15 giorni sorprende per le doti “norcine” schierate in campo e per l’equilibrio al palato: in visibilio dopo averla spalmata sulla supersonica focaccia cotta al vapore e finita alla brace.

L’ovino torna protagonista per narrare un perno ideologico del ristorante, ovvero il valore antico del baratto inteso come scambio culturale senza limiti dalla pastorizia dell’entroterra sino ai pescatori del Sud: una nuda Tartare di pecora, vivida di sentori nocciolati ed erbacei, abbraccia la salinità vellutata della maionese alle ostriche. Sul medesimo filone mare-terra, spicca il levigato Lardo di storione fait-maison con more sotto spirito, erbe di campo e dressing ricavato dal pane raffermo di segale (inoculato con muffe nobili spontanee). Vera hit emozionale quella dell’Uovo in purgatorio, rimodulato utilizzando la rosa canina in virtù del pomodoro e una grattata di ricotta salata, plasmando bocconi che unificano antico e moderno in inedite e voluttuose memorie papillari.

Esalta poi la staffetta di primi: una conturbante Pasta mista cotta in estrazione di patate arrosto con spuma di provola, ginepro e uova di trota in brioso remix lacustre-partenopeo; dei corroboranti Bottoni di cortile (quaglia, anatra, faraona) in olio di nocciola e brodo di funghi che intonano solfeggi umamici-orientali tutelando il vigore di una farcia dai tepori domestici. Infine, il clamoroso Tortello del pastore che nella sua fattezza minimale – quasi in omaggio all’iconico esemplare del San Domenico di Imola – riassume mirabilmente pensiero, direzione e potenzialità di questa cucina: pasta all’uovo dal callo millimetrico; candida ricotta di nivea freschezza nel ripieno alle erbe di campo; un profondissimo jus a glassare e scaglie di cuore di manzo stagionato evocando la carne essiccata che era uso portare in bisaccia durante la transumanza. Un radioso nuovo classico rurale dalla lampante attualità gustativa. Intriga e convince poi lo scenografico servizio al gueridon del Baccalà con ceci cotto nella pignatta, che sigilla umori di pesce, peperone crusco e legumi nell’involucro croccante del pane e nel giaciglio della terracotta: bisque ai gamberi di fiume e pil-pil irrorano il passato, rivitalizzando metodologie primordiali nel solco di un formoso ingegno contemporaneo.

Un terzetto sorprendente scandisce in chiusura il crescendo nel capitolo dessert: la musicalità accesa di consistenze e contrappunti delle lenticchie caramellate al cacao con ganache al loro miso e meringa; l’elettrizzante traduzione della Crostata ricotta e visciole di tradizione giudaica-romanesca e il tipico mosaico di frutta secca del Panpepato (dolce festivo) che in compagnia di un sontuoso zabaione espresso glorifica i più genuini tessuti familiari. Epilogo denso di acute intuizioni e personalità che, come il resto del pasto, lascia presagire un excursus promettente per questa insegna agli esordi, già capace di svettare oltre i confini.

Posto
Europa/Italia/Lazio/Roma
Al Madrigale

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