Ventimiglia è quel lembo di frontiera ligure tanto fascinoso quanto incomprensibile, alla pari delle uscite autostradali fuorvianti che ti catapultano al confine in un assurdo girotondo che ritarda l’approdo in città. La sua morfologia accarezza da un lato i margini francesi e strizza un’occhiata provocante al Piemonte, ma l’indole regionale appare come quella di un vecchio corsaro posto in posizione privilegiata sull’albero maestro della sua nave: ormai troppo impigrito e provato dalle imprese marittime per trovare lo slancio di salpare ancora. Un tempo questo centro urbano strategico godeva di un rigoglioso bacino commerciale dettato dal mercato dei fiori e dagli abbienti moti turistici indotti dalla Francia. Oggi lascia trapelare un flusso migratorio sregolato, apatia nel rinnovarsi e un clima di crisi che intacca le strutture di ricezione, non ultime quelle ristorative. Eppure, un triangolo di insegne continua a brillare senza arrendersi al deperimento qualitativo, come tre punti cardinali capaci di ridisegnare la giusta rotta. Chef e cuochi diversi tra loro, ma accomunati dalla volontà di offrire il massimo riscoprendo l’enorme potenziale insito nel territorio circostante.

Marco Polo: al timone della “grandeur” (o del nuovo vintage) ventimigliese
“Siamo passati dal coniare una cucina capace di attrarre i francesi gourmand all’osservare oggi i nostri cugini d’Oltralpe scendere qui per comprare stecche di sigarette o alcolici a prezzi ridotti”. Non la tocca piano Diego Pani, cuoco classe ‘93 dello storico ristorante Marco Polo. Indirizzo che da sei decadi troneggia sul litorale di Ventimiglia senza aver mai cambiato gestione. “Lo scenario è frutto del momento difficile che l’Europa (e il mondo) sta vivendo – approfondisce – la maggioranza delle attività cittadine predilige adattarsi a una clientela svogliata, proponendo pasta scongelata, pizza mediocre o kebab invece di puntare sulle risorse territoriali. Sul piano sociale, tema ancor più critico è quello delle flotte di migranti rimbalzati al confine che difficilmente riescono a integrarsi. Si generano facili quanto ignoranti focolai d’odio che non aiutano a rialzarci”. Traspare amarezza dalle sue parole, ma anche tanta voglia di speranzosa rivalsa e produttività. Una componente inviolabile del suo carattere da sognatore, punteggiata con lirica da poeta maledetto come quel volume in edizione limitata de I fiori del male che sfoglia con entusiasmo fanciullesco. Diego – Dede per gli amici – è un cuoco eclettico, scolpito da spirito bohémien e dalla viscerale passione per arte, musica e cultura. Si evince non solo da opere, libri e vinili che costellano il suo appartamento, ma anche dal vezzo di brandire ovunque una chitarra per allietare ospiti e amici. Fuori dalle stufe ha anche fondato una band battezzata Amado (come l’omonimo scrittore brasiliano), ma questa è un’altra storia.


La medesima valenza artistica però, la porta nel corredo genetico legato alle cucine e alla maestria del ristorare: ereditata sia da papà Marco e mamma Ivana che dai nonni, fautori dell’apertura del locale nel 1960.
Questo monumentale retaggio è tangibile in ogni dettaglio e cimelio del Marco Polo, ma non vive di nostalgia quanto di manutenzione e di rispetto di ciò che questo indirizzo è stato e continuerà a essere.
Impensabile recidere il cordone ombelicale con le gesta intro- dotte prima da nonno Oreste e nonna Maria – che tramutarono il bar di uno stabilimento incassato nella sabbia in una meta ambita per cucina e accoglienza – e poi dalla scalata pionieristica intrapresa in tandem dai genitori di Diego sino al modellare l’età d’oro del ristorante. Quando parla del papà – scomparso prematuramente, lasciando cicatrici profonde – il giovane cuoco non trattiene un senso di devozione che ti penetra la pelle ascoltandolo. Fardello emotivo metabolizzato per render merito al grande uomo che è stato: “Una sua dote innata era quella di percepire i cambiamenti in anticipo, quasi con metrica sensitiva – spiega riferendosi a Marco Pani – dopo la morte di mio nonno mollò gli studi per dedicarsi al ristorante e, nonostante la reputazione dello chef già presente al Marco Polo, avvertì un’aria d’innovazione che andava approfondita sin dai primissimi successi di Marchesi e dall’eco francofilo della Nouvelle Cuisine. Nel 1977, complice una fatidica Coca-Cola ordinata da mia mamma Ivana dentro le mura del ristorante, scocca tra i miei la scintilla di un amore suggellato sia dentro che fuori le cucine. In coppia intraprendono un pellegrinaggio di formazione dai più autorevoli maestri in Francia, con tappa da Gualtiero Marchesi e da Ezio Santin ai tempi tristellati della Cassinetta”. Il bagaglio raccolto gli dona la forza per riprendere le redini del Marco Polo, proiettandolo negli anni 80 verso uno stile raffinato, colto e contaminato, capace di unificare la classe francese al più cristallino gusto italiano delle cucine ittiche di livello.
Tutto il fermento di quel periodo rivive negli arpeggi culinari che Diego riporta oggi in tavola. Una cifra che riscopre modernità tra idiomi, cadenze e visioni del passato. Dai tremendamente attuali Tagliolini alla fricassea di aragosta (ideati da Marco e inamovibili in menu) al torchio originale de La Tour d’Argent (riportato dai viaggi francesi dei suoi) che Pani contestualizza brillantemente nella Pasta in brodetto di pesci à la presse. E se vi chiedete come ci sia finito lui dietro le stufe, è giusto sapere che i genitori hanno fatto di tutto per allontanarlo. Dede ha frequentato con successo l’università, ma poi ha scelto comunque di volare in Patagonia presso il ristorante di Philippe Bergounioux (amico fraterno e collega del padre). Rimane sepolto sotto cumuli di trote da sfilettare sino al sancire l’approvazione paterna: quella del cuoco era l’unica via percorribile.


Prima però, un itinere vincolato da duplice promessa rivolta proprio a Marco e al maestro Philippe, ovvero solcare la Francia e lavorare alla corte di Alain Ducasse. L’ambita chiamata arriva poco dopo, dopo essersi sudato la divisa macinando coperti presso il Salon La Première Air France by Alain Ducasse all’aeroporto Charles de Gaulle: “Sono diventato uomo e cuoco al Louis XV. Il periodo migliore e peggiore della mia carriera. Adrenalina, entusiasmo, ritmi e orari serratissimi componevano inferno e paradiso. Sono stato lì due anni sino a conquistare la partita del pesce che era il mio obiettivo, ma i primi mesi qualsiasi cosa facessi era sbagliata. In brigata si viveva un tutti-contro-tutti tanto formativo quanto brutale e militaresco. Quel che vedevi era un’estremizzazione del top di gamma, drasticamente sconnesso dalla realtà. Esecuzioni talmente perfette da creare un gap con la cucina stessa, come quello che scorre tra l’amore e la pornografia. Le mie radici con l’emisfero del Marco Polo mi hanno aiutato a comprendere quel mondo, ma rimanendo legato a una dimensione più terrena. Fondamentale per rientrare a casa”.
Il pentagramma francofono accordato con l’ecosistema ligure risuona nel presente del Marco Polo, dove tra le sale in legno dai fini rimandi retrò si destreggiano l’istrionico sommelier Mattia Cavalli e l’altra colonna del locale: Marina Pani, sorella di Diego. Animo introverso e più razionale il suo, ma detentrice di un portentoso e aggraziato registro di sala. Il sunto più sonoro della rotta attuale, Diego lo esprime rendendo omaggio alla leggendaria Soupe VGE di un altro grande maestro quale Bocuse. Un minestrone di verdure, vitello, foie gras e tartufo, cotto direttamente al forno nel classico mortaio per pesto, sfruttando il vapore di una burrosa e fragrante crosta di sfoglia. Apoteosi del piatto di frontiera, forgiato da una mirabile armonia di linguaggi neoclassici tanto italiani quanto francesi. Un fulgido manifesto del suo nuovo Vintage gastronomico. “Non ho assaggiato l’originale, ma dai racconti di mio padre nella testa mi risuonava così” spiega Dede.
“Essere oggi alla guida del ristorante insieme a mia sorella, mi fa pensare che ogni gesto è un continuo ritorno a casa. Rivedo ciclicamente quel che mi ha lasciato papà e leggo le sue mosse come le più moderne immaginabili”. Consumiamo le ultime chiacchiere presso una delle insegne più antiche di Ventimiglia, la Trattoria


Pani, dove mamma Ivana in prima linea confeziona grandi classici di stampo italo-regionale e pregiate gemme di pasticceria tradizionale (imperdibili meringhe e panna cotta). “Prima di assimilare un terroir con ottica imprenditoriale ci vuole davvero tanto tempo. Io sto ancora imparando” conclude Dede. “A bordo del nostro ristoro, come un vascello, bisogna capire quando andare di bolina, di poppa o lasciare un attimo le vele spiegate. Le battaglie del mondo o di questo panorama sociale non sono solo le mie, lo diventano perché è necessario adeguarmi ai tempi in cui viviamo. Non vorrò mai stravolgere l’identità del Marco Polo facendo cose anacronistiche, preferisco sostare nel tempo e dentro al tempo. L’unica certezza che ci accompagna risiede anch’essa in un’affermazione che mio padre ci ha donato: non esiste un momento migliore per questo ristorante, perché al Marco Polo si mangia e si mangerà sempre meglio”.
Nuove frontiere di fine dining a Casa Buono

A 15 minuti scarsi d’auto da Ventimiglia, l’arrivo sulla strada principale della frazione di Trucco è spaesante: una chiesetta ingiallita si alterna all’unico bar del paese, mentre un parcheggio sterrato per camion domina l’altro lato della via. Proprio dinnanzi a questo scenario inerte, sorge luminoso il ristorante Casa Buono di Antonio Buono e della compagna Valentina Florio. “Non abbiamo la vista accattivante dei locali lungomare in città e neanche le vetrate del Mirazur” afferma perentorio Antonio, chef campano adottato quale cittadino di mondo e frontiera. “Ci tocca correre con una Fiat 500 al passo di una Lamborghini per rimanere in pista”. Quel che dice lo fa e lo ha sempre fatto, difatti è impossibile vederlo fermo: sia mentre armeggia tra cucina e pass sul bancone affacciato nell’elegante sala principale, sia ascoltando la sua storia dagli albori. Gavetta old-school da giovanissimo tra banchetti, ristoranti voluminosi e pizzerie, ai tempi dell’alberghiero vicino a Napoli: “Mi piazzavo sempre ai fornelli, perché impastare o infornare pizze non era adatto alla mia indole adrenalinica” dice ridendo. Poi sceglie una scuola self-made di maestri col pallino della materia prima: Rocco Iannone all’apice professionale; David Kinch in California; l’antologico Santi Santamaria in Spagna e infine sette anni come sous- chef di Mauro Colagreco a Mentone, sino alla consacrazione massima delle tre stelle Michelin e della posizione numero uno della lista The World’s 50 Best Restaurants.


“Il percorso in parte me lo sono disegnato – riprende – ognuno mi ha lasciato qualcosa e il mio lavoro è stato cercare di prendere il meglio per farlo mio. Amore del prodotto e dell’orto, umiltà e tutela del sapore sono valori fondamentali” rimarca Antonio mentre ci illustra un piccolo giardino di aromatiche e agrumi che ha piantato sopra la casa dove vive con Valentina. Locata a pochi passi dal ristorante, era l’appartamento dei bisnonni di lei nonché motivo parziale nella scelta di aprire a Trucco. “Io e Vale ci siamo innamorati al Mirazur condividendo anche la pressione dei traguardi raggiunti – riprende Buono – ma con la nascita del primo figlio, sentivamo il bisogno di una dimensione più morbida e familiare dove rimetterci in gioco. C’era una connessione con i parenti di Vale e la possibilità di restare vicino alla Francia che ci ha dato tanto. Ho rilevato questo stabile abbandonato con l’idea di farci un localino semplice, con piatti della tradizione pensati per la condivisione e per godere senza pensieri.
Sul momento cercavo un distacco dal fine dining, ma le richieste continue dei clienti hanno riacceso l’impeto nel proporre una cucina più ricercata, seppur idonea a chi sono ora e alle risorse che mi circondano”. La vallata tutt’attorno cela tanta bellezza quanto una storia travagliata che rimarca le difficolta dei lidi di confine: in perenne contesa tra Regno d’Italia e Francia sin dal 1861, la valle venne effettivamente splittata in lato francofono e italiano dopo la Seconda Guerra Mondiale. “Non è stato facile agli inizi quando abbiamo investito i nostri risparmi qui – ricorda Valentina – i locals pensavano di trovare un Mirazur low-price e non comprendevano la direzione di Antonio. L’arrivo inaspettato della stella Michelin ha aiutato, insieme al pubblico francese che rappresenta oggi lo zoccolo duro di clientela fidelizzata. Un’opportunità per dedicarci a scoprire e supportare tanti produttori del territorio”. Valentina ci svela il suo passato in Antropologia dell’alimentazione con numerosi progetti europei e internazionali avvalorati prima di approdare al Mirazur, nell’ufficio per le relazioni con la stampa.
“Adoro studiare le origini del cibo, ci crediamo tanto da proporre un menu per pranzo chiamato Attraverso la valle: tre piatti a 60 euro con una durata orientativa di 60 minuti. Un’ora di macchina è il tempo che mediamente serve a percorrere l’intera valle. Trucco non sarà mai Mentone o Nizza, ma chi viene a trovarci potrà sentirsi sempre a casa, viaggiando oltre confine con i piatti che realizziamo”.
E si viaggia godendo forte con ogni boccone: Churro salato al parmigiano, polvere di pomodoro e salsa ajo blanco; Tuille di ceci, porchetta e tosatsu; Crudo di muggine, viola del pensiero, latte di pinoli e pesto d’alga nori. Sapori nitidi, decisi, avvolgenti, con influenze policromatiche riformulate su trame autoctone. “Non faccio una cucina regionale, fusion o italo-francese – puntualizza Antonio – ma cerco abbinamenti che esaltino i prodotti, basandomi su istinto e umori del momento. Voglio che il cliente avverta la qualità della materia e il mio bagaglio tecnico senza il bisogno di ostentarlo a parole. Vorrei far percepire ai miei ragazzi e ai nostri ospiti che non c’è bisogno di tante mani o di fenomeni per fare una ristorazione di livello, bensì di tanto cuore e tutela dell’individuo.






Vivo una logica libera da etichette, influenzato ogni giorno dalla spesa e dalle suggestioni che a volte mi fan cambiare i piatti all’ultimo. La mia unica costante è la triade dell’amore: olio, burro ed erbe aromatiche. Con questa base qualcosa di buono riesco sicuramente a farlo. Non sarà mai un problema accogliere clienti con restrizioni alimentari o variazioni in menu, perché il mio mantra fisso è: apri il frigo e cucina”. Il timbro stilistico scevro da etichette, scandito con manico impeccabile, trapela dalle voluttuose Tagliatelle paglia e fieno ai funghi, tartufo e “panna di anacardi” (capace di convertire al mito Eighties qualsivoglia vegano) dal Pollo di Bresse cotto magistralmente intero à l’ancienne con un supersonico topinambur in crosta d’amaranto e salsa albufera; o dalla commovente Zuppiera di candele spezzate al sugo di genovese: temprato nella stufa a legna quale rimando accorato alle virtù domestiche di stampo campano e alla ritualità conviviale proposta agli inizi del locale. “In un momento complesso per il fine dining ci tengo ad avvicinare le persone invece di comunicare un luogo inarrivabile. Questa frazione di paese semi-sperduta risulta ostica, ma per me ha un maggiore significato. Appena abbiamo aperto la gente di Trucco pensava fossi matto e che avrei chiuso in cinque mesi. Gli eventi e i clienti ci hanno riconosciuto i nostri meriti, perché siamo ancora qui dopo cinque anni con un locale ampliato negli spazi e ancora tanta voglia di fare”. Nicolas Zoccali, gioviale maître che incarna lo spirito familiare di Casa Buono, ci serve proustiane Madeleine appena sfornate, confidandoci l’abitudine di Antonio nell’offrirle alla squadra prima del servizio. Un gesto più che nobile, perché si rivelano tra le migliori mai assaggiate. “Poco fuori dal paese ho ereditato un appezzamento di terra dei miei nonni dove si coltivava davvero di tutto” conclude radiosa Valentina. “Ora è abbandonato con una piccola casetta da ristrutturare, ma noi fantastichiamo spesso sull’idea di realizzare lì, nel cuore dell’orto, un nuovo ristorante a suggellare l’unione con questo territorio. Rimane un sogno nel cassetto, eppure è più forte di noi non riuscire a star fermi, neanche con la testa”.
Il Ristorante Balzi Rossi e il naturale senso della cucina espressa

L’ingresso al ristorante Balzi Rossi è mozzafiato: non solo per la bellezza architettonica del locale, ma anche per la posizione aggrappata alla costa che concede uno scorcio unico su Mentone, spinto ai limiti del confine con la Francia. Sulla suggestiva terrazza del ristorante, che pare la prua di una nave lanciata in pieno mare, ci attende uno statuario Enrico Marmo. Chef dai natali piemontesi che è rimasto talmente infatuato dall’ecosistema ligure al punto da sedimentarci fondamenta di vita e di lavoro. Enrico trasmette un temperamento zen e una dialettica arguta tagliata da pungente ironia, mentre contestualizza il panorama che lo ha accolto:
“La gente di qui è particolare, a tratti incomprensibile. La stessa logica – spiega – vale per la ristorazione per la ristorazione che pare dormiente e preferisce adagiarsi sulle consuetudini e sul fare cassetto d’estate invece di investire sulla qualità e sul patrimonio territoriale che possiede. Da forestiero con la fissa della materia prima a volte ancora mi sale il nervoso, ma d’altronde anche la storia di questo posto che ora gestisco ricalca una mentalità difficile da smaltire”.
Il Balzi Rossi è stato in effetti un mito di queste zone tra gli anni 80 e 90, raggiungendo le due stelle Michelin e gli apprezzamenti universali di cuochi e giornalisti sino alla dipartita della signora Pina Beglia, granitica cuoca e titolare. Dal 2016, Marmo si è trovato a confrontarsi per tre anni proprio con lei, nel rush finale della storica gestione, dopo aver timbrato un passaporto formativo di rango che non ama sbandierare troppo (dalle premiate trattorie Slow Food a Davide Palluda e Carlo Cracco ai tempi di Matteo Baronetto tanto per dire). “Sono arrivato qui a 27 anni con la voglia di apprendere, ma anche con lo spirito affamato della gioventù.
Allora – ricorda Enrico – muoveva tutto la Pina e durante la mia esperienza da sous chef con lei vigeva solo la regola: ho sempre fatto così. Ho rispettato questo monito a testa bassa per un po’, ma creava un blocco comunicativo che non mi faceva progredire, per il primo anno non ho praticamente mai parlato. Le sarò sempre grato per l’approccio al mare che mi ha insegnato, una lettura distante anni luce da quel che un piemontese può immaginare: riconoscere i pesci idonei alle rispettive ricette o cotture; quali si possono cucinare subito e quali no; l’arte nel trattare con i pescatori in modo da assicurarsi una provvigione certa in una piazza di mercato a dir poco agguerrita. Ho vissuto quegli anni con dualismo interiore, sino a capire che c’era tanto oltre quel che lei mi diceva. Le risorse naturali infinite di questa terra, il cambio di scenario drastico in pochi metri, contadini con orti eroici e le condizioni climatiche così peculiari di questo lembo ligure. Qui le stagioni vanno comprese quotidianamente e ci vuole estremo senso di adattamento e responsabilità. Ti ritrovi la primavera in inverno con le fave e i carciofi a dicembre. Non riesci a fare a meno di vivere il prodotto e i suoi mutamenti ogni singolo giorno in modo diverso. Da cuoco può esser depauperante a livello energetico, ma ti crea un’assuefazione indispensabile sul piano creativo”.


Toccando il tema agricolo a lui caro, Marmo mette in pausa il racconto dei Balzi per catapultarci nella sua routine, verso l’orto del fedele fornitore Gianluca. Una visita che lo chef compie almeno tre servizi su cinque, non permettendogli di traccheggiare visto che fissi in cucina sono solo lui e Jacopo Rosti, braccio destro che lo segue da una vita. Presso l’Azienda Agricola Ascheri, a ridosso della dogana francese, carpiamo l’integrità professionale e la devozione smisurata di Enrico per i frutti del territorio. Osservarlo accarezzare i carciofi, tastare un pompelmo o sradicare cavolfiori sgranocchiandone le cime crude ci rivela il suo attaccamento al mondo vegetale, quasi ultraterreno. Articolati da lui, anche termini abusati quali “etico, naturale o sostenibile” ritrovano significato: “La nostra mentalità è che tutto deve esser fatto in maniera naturale, dalla fonte degli ingredienti sino alla trasformazione. Gianluca – approfondisce – l’ho conosciuto nel 2022 e ci siam trovati perché ha compreso subito che non cerco uno standard nell’orto, preferisco adattarmi a ciò che la natura mi dà e a come risponde l’humus indigeno. Un fattore determinante per me, che si tratti di materia prima o di cucina, è capire il valore del tempo imparando ad ascoltarne i cambiamenti. Per questo al ristorante non esiste una partita fissa e il menu muta ogni giorno secondo il pescato o il raccolto ortofrutticolo. Poi c’è una stringata lista di piatti che sono costretto a tenere sempre in carta, rivelandosi una maledizione per come funziono io”.
Enrico si riferisce a signature improrogabili del suo trascorso ai Balzi Rossi: il caleidoscopico multiservizio del Coniglio alla ligure (dalla testina alle frattaglie con ipersensibile trattamento d’ogni taglio dell’animale); il conturbante fraseggio salmastro-balsamico dello Spaghetto ai ricci di mare e rosmarino; o la clamorosa Animella, pompelmo, cicoria, permeata da seducenti spigoli amari e sfumature orientali. Tre piccoli capolavori che oggi quasi rinnega, mostrandoci quanto la volontà nel disaffezionarsi alle proprie creazioni sia un mezzo necessario per alimentare linfa basata sul radicale concetto di espresso. Attitudine che irradia esercizi nati dal nulla o dall’istantaneo sussurro captato dal suolo e dai fondali marini: l’astringenza caleidoscopica e succulenta delle Tagliatelle d’erbe amaricanti con siero innesto, gambi di acetosella e cipolla bruciata; il penetrante affondo salino e levigato del fegato di nasello al burro, aceto, paprika affumicata con l’antica varieta di fagioli Gran Mondo o le acuminate Cime di rapa alla cacciatora di scampi con olio di cipollotto e pasta di limoni: esercizio ove l’assenza fisica del pesce esalta il morso vegetale in masticazioni travolgenti. Esercizio improvvisato durante un servizio di spesa scarsa, perché il no-waste qui fa rima con esigenza e autentica mentalità.


“Spesso la notte lo sento arrovellarsi sul divano pensando agli abbinamenti plausibili in base alle previsioni sulla spesa del giorno seguente” afferma giocosa Eleonora Revello, compagna di Enrico che lo affianca tutt’ora nel servizio in sala. Un rapido flashback ci riporta alla fine del rapporto con la Pina nel 2019, periodo in cui lo chef trova grande affinità con l’estroso Lorenzo Moraldo: sanremese dal background internazionale, che attualmente tiene le redini della sala nel nuovo corso del locale. Sia quest’ultimo che Enrico prendono strade diverse dopo quel simbolico distacco, portando Lorenzo al St. Hubertus, a Horto a Milano e al Mirazur; mentre per il nostro chef avviene una fruttuosa parentesi all’Osteria Arborina in terra natia, a La Morra, nelle Langhe. Alla morte della signora Pina, viene ricontattato dalla famiglia dei Balzi Rossi per gestire autonomamente il ristorante, in una risoluzione circolare che lo vede guadagnare la stella Michelin, riallacciando poi il legame con Lorenzo che lo raggiunge interrompendo qualsiasi prospetto di carriera, solo per onorare l’empatia condivisa. “Ci eravamo lasciati con la promessa di lavorare di nuovo insieme; quindi la chiamata – afferma Moraldo – ha segnato la chiusura di un cerchio anche per me. Tra di noi, anche con Eleonora e Jacopo, ci conosciamo talmente bene che la direzione da seguire è sorta spontanea sia negli errori che nelle cose ben fatte. La mentalità del cliente medio è complessa, il peso storico che questa insegna si porta alle spalle a volte ancora ci schiaccia, ma l’adattamento graduale ci sta conferendo la possibilità di portare un po’ di freschezza nell’atmosfera e nell’ospitalità, evadendo dal prototipo turistico che dilaga in questa zona. Smontare l’ingombro di questa eredità, definendo un nostro stile sempre più personale, ritengo sia uno dei fattori che ci fa scattare in avanti con rinnovate soddisfazioni”.


Attestato finale del perpetuo flusso espressivo di Marmo, l’esperimento su un dessert in bilico tra panna cotta e crème caramel, accompagnato da estatica frutta raccolta e messa in conserva in proprio. “Qualsiasi elemento, ingrediente o considerazione che riesca a sollevarmi un dubbio per mettermi alla prova riporta un senso a ciò che sono e quello che facciamo qui” rivela Enrico. “Scherzo spesso sull’ipotesi che aprendo un buchetto senza pretese a Nizza tutto sarebbe stato più semplice, ma il potenziale illimitato di questo territorio mi dà tutto quel che cerco per come penso sia giusto cucinare. Poterlo realizzare al Balzi Rossi, insieme a questo gruppo di persone, non spinge il mio sguardo in nessun’altra direzione”.