Ventimiglia è quel lembo di frontiera ligure tanto fascinoso quanto incomprensibile, alla pari delle uscite autostradali fuorvianti che ti catapultano al confine in un assurdo girotondo che ritarda l’approdo in città. La sua morfologia accarezza da un lato i margini francesi e strizza un’occhiata provocante al Piemonte, ma l’indole regionale appare come quella di un vecchio corsaro posto in posizione privilegiata sull’albero maestro della sua nave: ormai troppo impigrito e provato dalle imprese marittime per trovare lo slancio di salpare ancora. Un tempo questo centro urbano strategico godeva di un rigoglioso bacino commerciale dettato dal mercato dei fiori e dagli abbienti moti turistici indotti dalla Francia. Oggi lascia trapelare un flusso migratorio sregolato, apatia nel rinnovarsi e un clima di crisi che intacca le strutture di ricezione, non ultime quelle ristorative. Eppure, un triangolo di insegne continua a brillare senza arrendersi al deperimento qualitativo, come tre punti cardinali capaci di ridisegnare la giusta rotta. Chef e cuochi diversi tra loro, ma accomunati dalla volontà di offrire il massimo riscoprendo l’enorme potenziale insito nel territorio circostante.

Marco Polo: al timone della “grandeur” (o del nuovo vintage) ventimigliese
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