Mini-storia
world pizza
La pizza, a Marsiglia, è una storia d’amore (e di cultura)
Con l’Emmental, metà-e-metà, comprata a spicchi per strada. Nella città provenzale, la pizza è una cosa seria e traccia gli scambi culturali del bacino del Mediterraneo
Testo di
Elisa Teneggi
Foto dal web
La pizza, a Marsiglia, è una storia d’amore (e di cultura)
8 minuti

Le strade di Marsiglia sanno di aglio, olio, pomodoro. Cose che friggono e si amalgamano, che provocano acquoline. Attorno, la città a tratti decade. La notte escono i topi, il porto butta su, edifici dal taglio bello stanno in piedi lì, scrostati. Il profumo che si sente non viene da una finestra aperta su una cucina, ma dai negozi della via. sembra di stare nel nostro Sud, quello che con la Provenza condivide la tradizione mediterranea, la zuppa di pesce (come direbbe l’antropologa del cibo, e amica, Giulia Ubaldi), il sapore caldo e rotondo che riporta a casa.

Ma no, non è la Bouillabaisse il piatto tipico di una delle città più antiche del bacino del nostro mare, che comunque quegli ingredienti li comprende tutti. Potrebbe esserlo per un turista, o per chi, con scatto nostalgico, si dirigesse al bordo della Plage des Anglais per sedersi ai tavoli di Chez Michel – che oltre alla Bouillabaisse offre la bourride, altro piatto di pesce che ricalca anche nel nome la ligure buridda. Per gli autoctoni, o gli habitué, Marsiglia significa pizza. Che pure raccoglie olio, aglio e pomodoro e li impila su un disco di pasta lievitata che, almeno in origine, non aveva molto a che vedere con l’idea che abbiamo oggi di “pizza”, napoletana e italiana, si intende.

“Fino agli anni Settanta, gli italiani erano la comunità immigrata più numerosa di Marsiglia”. Lei è Alessandra Pierini, autrice, negoziante, divulgatrice, espatriata in Francia, abitante prima di Marsiglia e ora di Parigi. “Marsiglia è molto italiana e nello specifico di un’Italia del Sud e ancora più precisamente napoletana. Quando arrivavano in città, gli emigrati italiani si stabilivano nel quartiere del Panier, oggi trendy e risistemato, perché era un’ex area aristocratica da cui i nobili si erano spostati. È piuttosto vicina al porto e preferivano andare verso l’interno, salire. Il Panier ha preso il nome dall’usanza degli italiani di calare il paniere dalle finestre delle case per trasportare cibo e oggetti”.

La moitié-moitié Mozza di Chez Sauveur – Foto di Elisa Teneggi

Con le persone, anche la pizza arriva nel Sud della Francia. Alla fine dell’Ottocento, per la precisione. La prima versione è povera, difficile da digerire e lievitata il giusto, nulla a che vedere con gli impasti idratati di oggi. Anche da noi era così, tendiamo a dimenticarcelo. Nella pizza italiana, a un certo punto, c’è stata la rivoluzione, quella di Enzo Coccia e della citata digeribilità. “La pizza in origine, a Marsiglia come anche a Napoli, era un disco di pasta condito con lardo. I pomodori sono arrivati dopo, il formaggio è arrivato dopo. Non è che la mozzarella abbondasse, a Napoli, nel primo Novecento. Sta di fatto che gli immigrati italiani cercavano di replicare con gli strumenti e gli ingredienti del luogo quello che conoscevano da casa”.

Le strutture, le pizzerie, mica esistono. La pizza si prepara a casa. Si stabilisce una tradizione nuovamente autoctona, ibrida per natura come lo è il continuum romanzo delle lingue e della tavola. Continua Pierini: “I marsigliesi si sono appropriati della pizza in senso positivo, nell’ottica dello scambio culturale, non del furto. A Marsiglia la pizza diventa croccante, bassa, con i bordi piccoli e bruciacchiati. Al taglio, la fetta triangolare deve stare bella dritta, la punta non si deve piegare verso il basso”. La pizza napoletana contemporanea sta rincorrendo, prende piede tra i giovani. Ora i pizzaioli vanno a formarsi in Italia. “La lingua di questo scambio però è un’altra e per me si riassume nella pizza tipica della città, la moitié-moitié, metà e metà. Cioè, una parte della pizza è condita con pomodoro e acciughe, l’altra metà con pomodoro ed Emmental, che è un formaggio locale, poco costoso e riconoscibile dai francesi”. Sembra sia nata semplicemente per non dover scegliere tra le due varietà proposte dalle pizzerie storiche. Degno di nota, sottolinea, è che, quando il pomodoro prende piede come condimento della pizza, non vengono usate le varietà italiane, ma una locale a forma di pera.

Un orgoglio locale che viene declinato anche dalle altre comunità alloctone: a Marsiglia la pizza è anche all’armena, la comunità araba invece la condisce con il kebab. I marsigliesi vecchio stampo, però, mangiamo moitié-moitié. Anche per antipasto: “Una volta, ora mi sembra si faccia meno, quando si andava in un ristorante che non faceva solo pizza si prendevano un paio di antipasto, una fetta a testa e via a ordinare il resto. Per l’italiana che sono, era una distanza culturale forse eccessiva: come fa a venirti voglia di ordinare un piatto principale dopo un po’ di pizza? Io avevo fame, ma ancora di pizza”.

Gli indirizzi storici, in città, sono tre: Chez Etienne, Chez Sauveur e Pizza Charly, tutti a gestione famigliare. Quest’ultimo non serve pizza al piatto ma a spicchi, da passeggio. “Per carità, la puoi anche portare a casa, ma lo spirito di Charly è uno spicchio dopo l’altro, seduti per strada, con una Coca Cola”. È la terza generazione della pizzeria, si chiamano tutti Charly. Pierini mi racconta che fanno circa quattrocento pizze al giorno, il costo è ancora popolare, tra i due e i quattro, cinque euro circa, dipende dai condimenti. A proposito: a Marsiglia la pizza si mangia piccante, l’olio è direttamente sul tavolo. “È un condimento che va contro ogni etica gastronomica, bottiglie vecchissime esposte al sole e alla luce, mai ricambiato, peperoncini lì da forse troppo tempo… Ma è così, o la prendi o la lasci. Come quando mangi una fetta di Charly, ti tocca farlo a cosce aperte come la limonata frizzante a Napoli, altrimenti sei da buttare via. E poi non chiedere mai da dove arriva un ingrediente, se c’è il lievito madre… La pizza di Charly è uno stile di vita”.

Pizza Charly

La pizza tutta, a Marsiglia, pare uno stile di vita. Anche perché, non contenti, da quelle parti hanno anche messo a punto il camion pizza, che è esattamente quello che suona: un baracchino delle pizze ambulante. Lo spunto verrebbe da un marinaio spagnolo, pare, che sarebbe andato in giro con il suo rimorchio a vendere oggetti. Da lì l’idea di farlo con la pizza, le prime versioni vedevano un forno attaccato come rimorchio a un mezzo di locomozione. “I camion pizza parlano di una territorialità della pizza pazzesca. Tra gli anni Sessanta e la metà dei Settanta, o forse fino agli Ottanta, a Marsiglia c’era pizza a ogni angolo. Era un cibo da strada, la merenda dei bambini fuori da scuola, quello che ti fermavi a prendere per cena mentre tornavi dal lavoro. Saranno arrivati a circa duecento camion pizza in tutta la città. Poi hanno cominciato a regolamentarli di più e sono scesi, ma parleremo comunque di una cinquantina o giù di lì in tutta la città”. Con tutto quell’aroma di pasta che cuoce, olio che sfrigola, sugo. Sì, possiamo immaginarlo.

Niente pizza night casalinghe, dunque, in Francia? Nessuno si cimenta? “Forse a Parigi, dove le mode impattano di più. Tra l’altro la pizza marsigliese è esportata poco in giro per la Francia, o almeno, a Parigi capita poco (c’è La cerise sur la pizza, “pizza marsigliese”, per esempio, nda). Anche perché farebbe strano mangiare una moitié-moitié via da Marsiglia. C’è tutto un compromesso da fare, le fatiche di digestione, le camminate per mandar giù, l’acqua per lavare il salato, mangiarla rigorosamente a pranzo. Ha senso se sei da Etienne o Sauveur. Comunque, no, a Marsiglia la pizza in casa tendenzialmente non si fa. Anche perché con così tanta pizza intorno, così tante tentazioni, come lo si potrebbe pensare?”.

La pizza marsigliese, insomma, è una roba d’amore, di sentimento. Rischia di scomparire però, secondo Alessandra. Tutto dipenderà da chi prenderà in mano la gestione dei locali storici quando la generazione presente tirerà la pala (del forno) in barca. “È una resistenza, contro la pizza gastronomica, gli ingredienti particolari, quelli aggiunti a crudo fuori cottura. La pizza tradizionale non ha più lo stesso status, qui. I grandi mulini italiani spingono per far usare i loro prodotti, pensati per una lavorazione dell’impasto diversa”. È così forse, o anche, che si crea quell’idea di world pizza, sorta di starter pack replicabile ovunque e certificato dal marchio Verace Pizza Napoletana. Almeno, che lo trasformassimo in gastrodiplomacy, diplomazia del cibo, come ha fatto la Thailandia con pad thai & co. Ma questa è un’altra storia. La nostra si ferma nel Sud dell’Europa, dove tre ingredienti parlano di storia, gusto e cultura. E ci invitano, ancora una volta, a fregarcene un po’ di quello che pensiamo di sapere sul “giusto e sbagliato” della tavola. Ché tanto lei non ha morale, ma solo dati di fatto.


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