Mini-storia
viaggio in norvegia
Savage, un italiano a Oslo
Molte anime della cucina degli ultimi anni, rivista con gli occhi di Andrea Selvaggini
Testo di
Gualtiero Spotti
Foto cortesia
Savage, un italiano a Oslo
3 minuti

I cuochi italiani da esportazione, che si fanno strada all’estero e conseguono importanti riconoscimenti al di fuori dei confini nazionali, sono ormai una realtà consolidata e presente a ogni latitudine. Poco importa che si tratti di Francia o di Spagna, dell’Asia o dell’Africa, perché in qualche modo la passione, la tenacia e il talento riescono a farsi strada e persino ad adattarsi con estrema facilità ad ambienti molto lontani, non solo geograficamente, da quelli del Bel Paese. Ne è un bell’esempio il trentenne viterbese, originario di Tarquinia, Andrea Selvaggini, che in quel di Oslo, nel giugno di due anni fa, si è visto recapitare dalla Michelin una luccicante stella rossa nel suo ristorante Savage. Un riconoscimento ampiamente meritato, che per la prima volta ha visto protagonista un cuoco italiano in Norvegia ed è figlio di un percorso, il quale affonda le sue radici nel tempo trascorso da Quique Dacosta, in Messico da Quintonil e da Gianfranco Pascucci, soprattutto, prima di muovere sette anni fa verso nord per curiosare da Maaemo e Kontrast, proprio a Oslo.

Savage è un ristorante, confinante con un bar e un hotel, che abbraccia con eleganza classica, e solo in parte un rigore estetico squisitamente nordico, molte anime della cucina degli ultimi anni, rivista con gli occhi di un italiano giramondo.

Si va dalla parentesi esperienziale dei primi bocconi degustati in una Green Room che originariamente doveva essere un negozio di fiori, ma è diventata un simpatico speakeasy pre-dinner con un bicchiere di champagne a fare compagnia, ai tributi alla materia prima locale una volta seduti al proprio tavolo, che dicono molto in un percorso di ben 21 piatti/assaggi. Ci sono i prodotti del mare (e di qualche lago) più pregiati, con l’Anguilla affumicata reinterpretata tra ajo blanco e cavolo rapa, la Tart di aragosta in salsa aioli, l’ormai celebre e più volte instagrammata Chela di scampo sempre presente dal primo giorno d’apertura di Savage e proposta poi in diverse versioni (la nostra era un sandwich di scampi a forma di chela, da mangiare con le mani e abbinato a gel di abete rosso, koji e funghi porcini), il Calamaro con cetrioli e alga nori o lo Sgombro con pomodori e fiori di sambuco. In alcuni casi il mare incontra la foresta, come per l’ottima capasanta servita cruda, con alga al curry, cuore di renna affumicato e i löjrom, le classiche uova arancioni di coregone. Il menu, quindi, vira verso il carnivoro, con i prodotti dell’azienda agricola a conduzione famigliare Holte Gård, che si trova tra le dolci colline di Drangedal, a un’ora e mezza di macchina da Oslo, e che rifornisce Selvaggini di anatre destinate a impreziosire il menu in due versioni: la più classica all’arancia e i gyoza di coscia d’anatra che riassumono bene la curiosità del cuoco per l’oriente.

Non può, poi, mancare anche un chiaro riferimento italico, con i Tagliolini che però qui vengono declinati alla scandinava, ovvero accompagnati dal Fenalår (una coscia di agnello, a volte affumicata, e diventato da Savage un ricco ragù) e i finferli, i funghi conosciuti nel nord Europa come chantarelles. Con, infine, un lato dolce del percorso dove si gioca a stuzzicare il palato mescolando incursioni citriche, lamponi artici, frutti di bosco e alghe, che raccontano molto bene il talento del cuoco laziale nell’equilibrare i sapori al palato. Un bell’esercizio di versatilità a tutto tondo che inserisce Selvaggini a pieno titolo nel gruppo dei cuochi da tenere d’occhio.

Posto
Savage


Articoli correlati
Cose che non sapevi di voler leggere