Quando pensiamo alle radici, pensiamo alle lunghe braccia sotterranee di una pianta, che si estendono in ogni direzione per raccogliere acqua e sostanze nutritive. Queste nutrono la pianta, la aiutano a crescere e la ancorano al terreno, aiutandola a stare in piedi. In senso figurato, possono essere legami con un particolare luogo o con una particolare comunità, ma se si strappano queste radici figurative, si possono ancora mantenere i legami con quella comunità?
La mancanza di radici è un tentativo di evitare le responsabilità o un’idea di liberazione, di non essere legati dalle catene della vita, come una pietra che rotola? Oppure è solo un altro modo di vivere in un mondo che continua a ricrearsi?
La definizione del nostro modo di vivere e di lavorare nel mondo della gastronomia è cambiata. I vecchi sistemi, quelli che ci aspettavamo rimanessero sempre uguali, non sono più affidabili come pensavamo. Abbiamo lavorato di più e guadagnato di meno, inseguendo una crescita infinita al punto che il nostro lavoro ha perso ogni valore e significato e il nostro pianeta sta cadendo a pezzi. Siamo diventati allo stesso tempo più connessi e più disconnessi, abbiamo stretto la mano a molte persone ma non abbiamo conosciuto veramente nessuno. Lo stato attuale del mondo, con tutte le guerre e le pandemie, ci porta a mettere in discussione le fondamenta, come è giusto che sia. Ma forse esiste un’altra via!
La tecnologia ha reso possibile vivere in molti mondi contemporaneamente e le nostre radici possono essere molto meno fisiche di quanto non lo siano state in passato. Possiamo agire e pensare a livello globale e locale allo stesso tempo e le nostre comunità sono tenute insieme da un micelio virtuale. Persone provenienti da tutto il mondo con i nostri stessi interessi di nicchia sono solo a distanza di uno scroll. Possiamo connetterci con nuove persone che prima non potevamo nemmeno sognare e potremmo non aver bisogno di tutte le banche e gli investitori di cui necessitavamo una volta per lanciare le nostre idee. Non abbiamo bisogno di milioni di follower e di programmi televisivi, una piccola rete di persone disposte ad appoggiarci può essere più che sufficiente per sostenere un sogno. Questo concetto sta aprendo le porte a molti, ma bisogna essere abbastanza fantasiosi per trarne vantaggio.
Come scrittore non sono mai riuscito a trovare il modo giusto per esprimere ciò che volevo dire sul mondo, finché non sono andato in giro a commettere errori ovunque. Per anni ho vissuto in modo nomade, abitando in luoghi da semipermanenti a transitori, cercando di capirci qualcosa (per la cronaca, ci sto ancora provando). Se mi fossi lasciato trascinare dalla risacca, chissà che cosa avrei fatto o dove sarei finito. Mi ci sono voluti anni per capire che non mi interessava tanto scrivere specificamente di cibo e di luoghi, quanto piuttosto di come tutti i cibi in tutti i luoghi si combinino tra loro. Fare questo lavoro non richiede tanto una routine quotidiana in un luogo specifico, quanto una routine transitoria che fluttua continuamente.
Molti di noi, soprattutto dopo la pandemia, non lavorano più in un ufficio. O addirittura nello stesso posto ogni giorno. Possiamo lavorare in caffetterie, spazi di coworking o Airbnb che affittiamo per giorni, settimane o mesi, diversi di volta in volta. Mentre la mia casa fisica è nella Lower Hudson Valley – il luogo in cui vivo con la mia famiglia – il mio lavoro potrebbe portarmi ancora e ancora nelle alte giungle del Perù o in una piccola isola al largo della costa meridionale dell’Islanda. Ho capito molto tempo fa che non avevo bisogno di andare personalmente in redazione. Internet mi ha permesso di costruire la mia comunità senza confini fisici. Non c’è nessuno che mi dica cosa fare – nel bene e nel male – e posso fare il mio lavoro dappertutto. Nel mio podcast converso regolarmente per un’ora, faccia a faccia, con qualcuno che si trova in Brasile mentre io sono dall’altra parte del mondo e il mio co-conduttore è a Los Angeles. Non sono limitato dal tempo né dal luogo, ma piuttosto dalla velocità delle connessioni internet e dai viaggi in aereo.
Un cuoco non può necessariamente svolgere il proprio lavoro a distanza, almeno per ora. Deve avere una clientela a cui servire il cibo. I social media hanno permesso al pubblico di essere ulteriormente distanziato, permettendo ai cuochi di raggiungere i clienti, anziché il contrario. È quello che hanno fatto per un anno i danesi Emilie Qvist Kjærgaard e Simon Seidelin Basballe, con una serie di cene itineranti da Zurigo a Firenze. I pop up un tempo erano dei ristoranti temporanei e sperimentali, di solito creati per testare nuove idee prima dello sviluppo del ristorante vero e proprio, e di solito, si sperava soltanto di non perderci soldi. Oggi, invece, non è più necessariamente così. Il pop up può diventare il vero ristorante, l’ambiente concettuale in cui trasmettere la propria idea; può essere l’attività, piuttosto che un semplice supporto alla vera attività.
I cuochi possono anche rilevare un ristorante temporaneamente, per alcune settimane o mesi alla volta. Locali come Carousel a Londra o Fulgurances a Parigi e a New York sono progettati per offrire residenze temporanee, creando menu che possono durare da poche notti a qualche mese. Se si aprono altri locali come questi – e tutti i segnali indicano che lo faranno – un cuoco può guadagnarsi da vivere in modo piuttosto piacevole spostandosi da una cucina all’altra in giro per il mondo.
Sebbene uno chef che firma più ristoranti in tutto il mondo non sia una novità, il modo in cui può essere coinvolto in questi spazi è cambiato. Si può essere sia in città che in campagna, gestendo contemporaneamente entrambe le brigate. Le distanze, sia psicologiche che fisiche, si sono accorciate e non è più necessario scegliere una vita piuttosto che un’altra.
Anche altri mestieri gastronomici stanno beneficiando di questo spostamento nomade. Al giorno d’oggi è abbastanza ragionevole voler essere un gipsy brewer (birrai itineranti, ndr) in Bolivia mentre si affitta un appartamento a Londra. Gli agronomi, come l’italiano Paolo Ravano, possono spostarsi da un vigneto all’altro, aiutando i viticoltori a passare all’agricoltura biodinamica o a migliorare le tecniche di potatura. Perché costruire un’aula in muratura quando si può viaggiare per insegnare la fermentazione o la produzione di formaggi naturali, o anche farlo via Zoom da Timbuktu?
Essere un nomade culinario, nel senso di viaggiare da una cena all’altra, da un evento all’altro, conducendo uno stile di vita da rockstar, per un attimo mi è sembrato divertente. Per uno chef è buffo, può ottenere più riconoscimenti quanto più sta fuori dalla sua cucina piuttosto che rimanendo a casa. Eppure, l’obiettivo che spesso si prefigge di raggiungere sembra allontanarsi sempre di più. Questa nuova generazione di nomadi, infatti, è alla ricerca di una connessione più profonda, di perfezionare il proprio mestiere in modo significativo, di continuare a crescere ed evolvere anche mentre si sposta.
Mi chiedo cosa riservi il futuro alle prossime generazioni di vagabondi, viaggiatori e girovaghi. Con la realtà virtuale e le stampanti 3D, uno chef potrebbe essere in grado di servire il cibo anche a distanza; potrebbe trovarsi a Milano e allo stesso tempo conversare e cucinare un piatto per un cliente a Palermo. Un giornalista potrebbe essere in grado di farvi visitare il mercato Adolpho Lisboa di Manaus mentre siete seduti al fresco con l’aria condizionata a bere un pét-nat su una nave da crociera. Oppure saremo in grado di addestrare i robot a cucinare come Mitsuharu Tsumura, in modo che il suo cibo possa essere servito – in molti posti contemporaneamente – esattamente come lo cucinerebbe lui? Le linee di demarcazione si stanno già sfuocando. Insomma, ci chiediamo: che cos’è ora il Noma? È un ristorante stagionale? Un pop up itinerante? Una fabbrica di garum? Ha importanza come lo definiamo? Ciò che è e ciò che rappresenta va ben oltre un mucchio di mattoni o del cavolo navone?
Per certi versi questo modo di guardare il mondo è un salto indietro nel tempo, a quando le comunità di cacciatori e raccoglitori seguivano le migrazioni degli animali e della caduta dei frutti. Allora le opportunità erano più sparpagliate, più fugaci, come lo sono oggi. Anche se potremmo non avere sempre una residenza formale o un luogo di lavoro statico, dire che non abbiamo una base fissa sarebbe tuttavia fuorviante. In un certo senso mettiamo radici, ma siamo più simili a una palma errante che a una quercia, che “muove” la chioma in cerca di luce nella foresta pluviale.