A volte è necessario imbattersi in chi predilige “il fare al proclamare” per ricevere una sonora sveglia in pieno volto. È quel che provi appena seduto al San Brite dopo un viaggio tinteggiato di neve e sole. Approdiamo al limite d’orario del servizio, ma l’accoglienza qui – lo realizzeremo sempre più nel corso della nostra visita – è una disciplina regnante. Si dipana istantaneo un manifesto commestibile di quel che per questa insegna (e per le persone che ne fanno parte) risulta priorità. Senza il bisogno di lustrarsi tra descrizioni pompose: in direttissima dall’adiacente bottega/caseificio Piccolo Brite (ci ritorneremo con calma più avanti) sfilano taglieri di formaggi autoprodotti (Latteria; Fermentino; Dolcevita simil-taleggio); un “appenino” di burro maison appena montato e una distesa inebriante di speck derivato dalla carne dei propri maiali.
Origine, materia, filiera, circolarità. Serve altro?
A pancia piena si ragiona meglio e posso rimettermi a tracciare il profilo di questa realtà montana, scandita da più identità inscindibili tra loro. Cominciamo dal paesaggio intorno, da non dare per scontato, perché si tratta di una Cortina d’Ampezzo distante ere galattiche dall’immaginario caricaturale di un Cinepanettone. Piuttosto siamo in una pellicola d’essai del cinéma-vérité che avrebbe girato un maestro del genere antropologico/etnografico quale Michel Brault.
In un contesto che quindi già ribalta preconcetti da meta turistica, l’intrepida coppia di Riccardo Gaspari (cuoco/allevatore) e Ludovica Rubbini (direttrice di sala, cantina e molto molto altro), entrambi classe 1985, hanno eretto nel 2017 un ristoro di pregio sul piano nazionale. Ristrutturando uno spazio inizialmente acquistato per ospitare un fienile e il caseificio sopra citato. Avete letto bene, perché il San Brite è solo l’espressione ultima di un percorso che nasce da un passato radicalmente agricolo. Fatto di visione, eclettismo e tanta sana voglia di mettersi alla prova continuamente. Per carpire meglio quel che sto dicendo, bisogna inerpicarsi lungo qualche tornante innevato più in su rispetto al nostro locale d’attracco: direzione Larieto (frazione che trae il nome dai folti boschi di larici), dove – sorvegliata dall’imponente Monte Cristallo – si erge la malga con locanda ove tutto ebbe inizio. Riavvolgiamo il nastro.
El Brite de Larieto
Lo scenario si apre con galline che razzolano libere all’aperto e qualche capretta che osa fare capolino da una stalla. Ciò che abbiamo davanti agli occhi era una struttura diroccata degli anni Trenta con una vecchia stalla dismessa. Complesso affidato inizialmente a un collettivo di 100 contadini e allevatori locali dalle Regole d’Ampezzo (che gestisce da tempi immemori le proprietà terriere/immobiliari al fine di non stravolgere l’assetto territoriale), è stato poi rilevato nel 2004 dai genitori di Riccardo: Flavio e Giuliana. Famiglia, la loro, che si è tuffata nel mondo agricolo per pura vocazione passionale.
“Mio padre era un ex-falegname che allevava già i maiali in casa. Il nostro tessuto familiare era legato a quei gesti – racconta Riccardo – tuttavia quando ha rimesso in moto la malga, con un drastico cambio di vita a 50 anni, l’allevamento e la successiva trattoria le ha realizzate partendo completamente da zero. Imparando sul campo, semplicemente con l’arte del fare e ricevendo dritte dagli altri contadini del circondario”.
Che personaggio eroico papà Flavio. Figura granitica con pala fissa in mano, barba folta e sguardo vispo. Si concede pacato di avanzare una battuta: “Forse dovrei smetterla alla mia età”, conscio che quel che ha creato risulta a prima vista un’opera titanica. Il progetto embrionale prende snodo appunto dall’allevamento di vacche (oggi Pezzata Rossa, Bruna e Grigio Alpina), qualche maiale pesante e capre camosciate. Si punta principalmente alla produzione e vendita di latte, sino alla crisi del settore che lo spinge ad adattarsi, anch’esso orientato però su un selciato ardimentoso: riabilitare il ristoro adiacente alla stalla, delegando l’amministrazione delle stufe a sua moglie Giuliana. Cuoca d’estrazione casalinga, ma che si fa subito apprezzare dagli avventori con i suoi manicaretti di stampo tradizionale.
In parallelo i due giovani Ludovica e Riccardo si rincorrono in una ritmata storia d’amore che custodiscono in grembo sin dalle scuole dell’obbligo. Lei, che è nata a Bologna e ha lavorato nel mondo della moda, saliva spesso in quel di Cortina per le stagioni sciistiche. Lasciando fioccare quel colpo di fulmine che prenderà forma effettiva solo diversi anni dopo. “Ricky era il classico sciatore devoto allo sport un po’ irraggiungibile – ricorda con tono ironico Ludovica – ci ho messo un po’ a farmi notare, anche a seguito di diversi sali e scendi da Bologna, ma oggi siamo sposati e le due bimbe confermano che il sentimento ‘investito’ era quello giusto”. Ride. Dopo la parentesi da sportivo agonista (professionista in discesa libera) e maestro di sci, Riccardo si lancia prima ad aiutare il padre nella pratica dell’allevamento e nella produzione ridotta di qualche formaggio artigiano, poi sceglie di passare senza indugi ai fornelli nell’avamposto inaugurato dalla mamma. E lo fa in punta di piedi sul piano dell’apprendimento, ma con lo stesso spirito competitivo che lo caratterizzava sulle piste. Quando motiva ogni sua scelta o movimento in effetti, Riccardo appare come un gigante buono pervaso da una assoluta naturalezza e una serenità interiore incontaminata.
“Mi sono imposto di fare il meglio che potevo con le mie conoscenze dell’epoca – spiega – per compensare le lacune compravo libri di cucina in maniera compulsiva e la sera mi fissavo a guardare programmi su Alice TV prendendo appunti su tutto quel che poteva tornarmi utile. Il resto l’ho assimilato mettendomi in gioco, sbagliando tanto anche, ma con alcuni punti fermi imprescindibili. Rendere felici gli ospiti che venivano da noi e utilizzare sin dagli inizi solo le cose che noi stessi riuscivamo a produrre. Una logica di cucina circolare, integrata al timbro che già ci apparteneva per definizione. Attualmente si usano molto termini feticcio come etica o sostenibilità, ma io preferisco chiamarla cucina rigenerativa perché come quel tipo di agricoltura trae i giusti nutrienti dalla terra senza sfruttarla, restituendogli sostanze necessarie a vivere e auto-alimentarsi.
Con i miei, siamo partiti dalla terra per arrivare alla cucina e questo passaggio non poteva essere ignorato. Ci identifica in ogni posizionamento. Sento molti cuochi che affermano di tornare a lavorare la terra, ma dopo averlo vissuto sulla mia pelle – per l’impegno estremo che necessita – posso azzardare che è davvero raro trovare chi lo fa per davvero”.
Tornando al periodo del primo ristorante, Ludovica raggiunge Riccardo nel 2007 col medesimo approccio, ingegnandosi nel ricoprire al meglio il ruolo di coordinatrice di sala. Delineando le proprie doti e intuizioni in totale autonomia self-made. Eccolo sbocciare El Brite de Larieto (che in dialetto ladino significa “casa del pastore”, una malga adibita alla vendita del latte fresco): piccolo fenomeno locale, che arriva a macinare anche 200 coperti al giorno in alta stagione. La cifra stilistica di Riccardo si evolve, inserendo piatti sperimentali in alternanza ai grandi classici della tradizione. Il piatto di svolta? La Tartare di speck stagionato 6 mesi, salsa di cetrioli e gelato al burro salato tutt’ora presente in carta. “L’idea mi è venuta durante le trasferte in terra emiliana per andare a trovare Ludo, trovavo spesso dei ritagli di prosciutto conditi con l’olio in quelle lande e ho pensato di riadattare quell’assaggio con un prodotto molto rappresentativo per noi e per la nostra cultura. L’aggiunta del gelato al burro al posto dell’olio a condire è stato uno dei primi segnali che mi spingevo a sperimentare qualcosa di più innovativo” approfondisce con imbattibile spontaneità Ricky.
A El Brite questa linea post-tradizionale continua a veder convivere esercizi reconditi – squisiti i Casunziei di Nonna Annetta ripieni di rapa rossa con burro nocciola o gli iconici Canederli in tre varianti con burro fuso – e piatti dall’accento nettamente contemporaneo. Come l’assolo vegetariano della Zucca al forno in crema di Parmigiano Reggiano, ricotta salata e semi di zucca tostati o la corroborante digressione orientaleggiante del Maiale affumicato in brodo di verdure di stagione. A volte, addirittura, questi due poli si fondono in modo inedito: gli Gnocchi Soreghina, di patate, ripieni di formaggio, avvolti da una sontuosa spuma di Latteria stravecchio, con riduzione di mosto cotto e pane speziato al cumino; l’antichissimo dolce Zopes, un affascinante incrocio tra una crème brûlée e un pain perdu, pane vecchio inzuppato nel latte e dorato nel burro, finito con crumble di mais, mandorle e crema inglese calda al marsala. Clamoroso.
“Siamo entrambi dei pericolosi perfezionisti, lui dentro e io fuori – sottolinea ridacchiando Ludovica – qualsiasi cosa in cui ci cimentiamo ci porta ad affinare il dettaglio allo stremo e a non rimanere mai in superficie. Io poi non riesco a star ferma un attimo e devo individuare continuamente nuovi stimoli. La palestra di El Brite è stata cruciale per definire le nostre identità, per capire che, come obiettivo primario, avevamo quello di far star bene il cliente e di riscoprire i tratti distintivi del nostro territorio per preservarli ed esaltarli in letture alternative. Così quando la creatività di Riccardo scalpitava in cucina ha cominciato a fare stage in giro per ampliare i propri orizzonti, ritagliandosi anche vari periodi da Massimo Bottura in Francescana. A quel punto è diventato necessario trovare un nuovo spazio per raccontare chi eravamo diventati”.
Lo spiraglio narrativo si apre facilmente verso l’introduzione del San Brite, ma prima ci fermiamo a far merenda. Di recente, infatti, il pomeriggio a El Brite è riservato a rivitalizzare usanze dimenticate. “Una pratica che, sia tra le mura di casa che al rientro dalle passeggiate in montagna, qui da noi era un vero è proprio rituale d’infanzia – rammenta Ludovica – un ricordo affettivo che occupa un posto di riguardo nei nostri cuori e che elebriamo con un menu dal dopo pranzo al tramonto”.
L’atmosfera calorosa intagliata nel legno e negli affascinanti arredi rétro si tramuta nel palcoscenico di una tavola imbandita di preparazioni dolci/salate rispolverate dalle memorie culinarie dei titolari. C’è un supersonico Toast con pan brioche home-made, imbottito di prosciutto e formaggio della casa, fritto a puntino nel burro ruggente da intermezzare con salsa al rafano. I soffici Buchteln (paffuta pasta dolce lievitata, cotta in forno alla crema pasticcera); uno struggente dessert dai rimandi austriaci quale il Kaiserschmarrn (frittata dolce servita con confettura di mirtilli rossi); delle micidiali Fartaies con panna fresca montata (frittelle dolci all’ampezzana) o ancora Bomboloni caldi e appena fritti, farciti di crema per sancire il knock out calorico. Un momento di ritrovo beatificante, dal respiro decisamente sociale. La cucina è affidata alla cuoca Ilaria Piccolini e a un giovanissimo team di ragazzi proveniente da diverse parti d’Italia e del mondo. Fatto il pieno glicemico, con un bombardino e un vin brulé, possiamo finalmente affrontare un altro capitolo. Facciamo rientro al San Brite, a Cortina.
San Brite & Piccolo Brite
Riccardo riprende a raccontare: “Cercavamo un nuovo fienile per il bestiame e il modo per accostargli il nostro prototipo di caseificio. Magari piazzarci anche un’autorimessa per le macchine da lavoro di mio padre. L’entusiasmo scaturito dal nuovo stabile ci è sfuggito di mano, per fortuna, e abbiamo deciso in corso d’opera di trasformalo in quel ristorante più spinto sulla ricerca del quale io e Ludo avvertivamo davvero il bisogno. Nel passaggio non abbiamo dimenticato le basi ideologiche del nostro lavoro: la materia prima, quella nostra, sarebbe rimasta al centro. Non volevamo assolutamente franare nel ristorante fine dining centrato sulle velleità dello chef. La mia cucina si prefissa la volontà di descrivere i nostri boschi, il nostro amore per la montagna e la filosofia rigenerativa, a ciclo chiuso, che distingueva l’esperienza già consolidata a Larieto. Mi interessa la concretezza e la coerenza dei gesti, la trasparenza nella costruzione di un menu che nobiliti ogni parte del prodotto che utilizzo e che non costringa i miei ospiti a una scelta di un percorso obbligatorio. Qualche esempio? Oltre alle proposte degustazione, i piatti alla carta sono sempre presenti. Fare un solo menu degustazione e parlare di sostenibilità è anacronistico ai nostri tempi. Si limita tantissimo la fruibilità dell’insegna e anche l’affluenza nel lungo termine. Già alzare il livello di ristorazione implica un abbassamento della sostenibilità interna per numerosi aspetti. Se non fossimo anche una realtà agricola rodata, con El Brite a supportarci, rischieremmo anche noi di esser vittima di questo processo”.
A riprova del potenziale della carta, citiamo un’imperiosa Gallina ripiena di bollito con sorbetto alla senape da ribaltarsi; le succulente Lumache al verde di erbe spontanee o ancora una scultorea Patata di San Vito alla brace in salsa beurre blanc con la propria buccia croccante. Godibilità incondizionata alle stelle.
“Tornando sul fronte rigenerativo, qualsiasi scarto alimentare qui viene ripristinato sia nell’ideazione di nuovi piatti sia, ove possibile, come mangime per i nostri animali”.
Orientandoci tra gli assaggi del percorso “Sentiero” (il menu più lungo del San Brite), ne sono testimonianza il conturbante Scalogno cotto in brodo e marinato in aceto di lampone, salsa al burro bianco, semi di senape, larice e consommé d’ossa di maiale; l’escalation sulfurea/detonante del Cavolfiore alla brace con yogurt alla greca e uova di trota, dove il brodo è ricavato dalle foglie avanzate del cavolo stesso; o l’umamico e persistente Sedano rapa al 100% (senza alcuna aggiunta di sale o zucchero): il suo cuore crudo in purezza, le radici grigliate, le estremità erbacee al sentore di fumo; le bucce cotte oltre 2 giorni e ridotte in un fondo che al palato sa di liquirizia e caffè. Infine, un sorprendente Gelato al mais, ricavato dagli scarti di produzione dell’olio, in brillante match di contrappunti con il caramello di mela (sugar free), il brodo di liquirizia e il grano saraceno croccante. Dal verbo ai fatti.
Riccardo è serafico: “Recepisco a modo mio le tendenze gastronomiche che noto intorno. Perché far mio qualsiasi espediente tecnico, se poi non ha senso di esistere in questo luogo? Le fermentazioni le usiamo, poco, perché hanno una connessione culturale con le nostre zone, ma prediligo trarre spunto dalle salamoie o dalle conserve sottaceto che si son sempre fatte nelle nostre case. I sapori sono più integri e rotondi e il processo è molto più stabile. Un piccolo orto lo abbiamo per ortaggi, aromatiche e vegetali basilari – soprattutto tuberi, porri o sedano rapa – ma se posso supportare un agricoltore di fiducia non mi tiro certo indietro. Idem per variare l’offerta delle carni, oltre ai bovini, alle capre o ai maiali che alleviamo. Non mi serve inserire un piccione nel menu, ma se interagisco con validi macellai di zona per provare tagli sensibili come il quinto quarto, o ancora esempi di caccia etica su suolo locale li collaudo in tiratura limitata nel menu degustazione”.
Ce lo rammenta, in tavola, il Filetto di cervo al fieno greco con maionese di abete, salsa ai frutti rossi e cavolo nero, che chiude con punteggiature selvatiche il comparto salato del sensazionale menu degustazione. “Non c’è limite se non il territorio stesso. Questa non è forse una cucina replicabile, ma descrive limpidamente la nostra quotidianità e la nostra vita di montagna”.
Non c’è limite se non il territorio stesso
E se lo spazio nato come fienile/autorimessa è quello che oggi chiamiamo San Brite (dove “san” sta per sano, sempre in ladino del Cadore), la formula del caseificio è rimasta intatta: connessa in tutto e per tutto (anche architettonicamente) con le cucine del ristorante e con una piccola cella/cantina dove Riccardo stagiona salumi e formaggi, improvvisando anche qualche simpatico affinamento sulle forme casearie. Dal latte crudo di famiglia, in sinergia espressiva con il casaro aziendale, i due si dilettano in prodotti più o meno classici (dal fantastico yogurt ai caci dalle stagionature più spinte) creando anche fraseggi inaspettati che sfociano nella genesi dei piatti al ristorante. Vedi l’iconica cupola di burro montato con solo il 2% di sale, tanto etereo e setoso da generare dipendenza scellerata. La ricotta cagliata al tavolo – in attesa del dessert – da recuperare nella caldaia in rame e lasciar rapprendere nell’apposito cestello sino allo scolo del siero. Oppure il caleidoscopico Orzotto tirato nel siero di latte con erborinato dolce, sedano selvatico, limone salato, pepe e alloro, estratto sempre dal menu degustazione Sentiero.
Tra i derivati del suino invece, troneggia lo speck affumicato al ginepro: il base stagionato intorno ai 6 mesi; quello più pregiato – e con una presenza più massiccia di grasso – arriva a oltre un anno. Seguono coppa e pancetta, sempre su lavorazione integralmente naturale.
Tutti i prodotti confluiscono appunto nella bottega del Piccolo Brite che, di fianco al ristorante (e al caseificio stesso), dispensa ogni sorta di ben di dio hand-made sin dalla mattina, insieme a qualche chicca (vino, confetture, pasta, conserve) che Ludovica e Ricky selezionano con estrema cura.
Riaffacciandoci qualche passo più in là, alle porte del ristoro, respiriamo la stessa sensibilità e il tatto che Ludovica ha trasposto negli arredi (ogni ornamento, oggetto o suppellettile è pezzo unico di artigiani locali) e nelle divise confezionate su misura da un sarto per tutte le componenti della squadra in sala, ognuno con un taglio diverso. “È più forte di me, non riesco ad adeguarmi alle omologazioni. Neanche nel modo di veder vestiti i nostri ragazzi. Non comprendevo l’abitudine della divisa sempre uguale per camerieri e operatori di sala, adocchiata un po’ ovunque, quindi, abbiamo scelto di comune accordo di provare a mettere in risalto il loro singolo ruolo, le loro personalità e il loro stile. Questo mio lato un po’ maniacale, ma genuino alla base, lo ripercuoto anche nella formazione interna con il team e nel cercare di trasmettere un grado di empatia rivolta agli ospiti per migliorare ogni ora che trascorriamo qui dentro. Siamo un gruppo di oltre 25 dipendenti e penso sia fondamentale stimolare anche loro, facendoli però lavorare in un clima rilassato, di serenità complessiva. La stessa che ci prodighiamo nel trasmettere all’esterno. Facciamo ciclicamente dei corsi collettivi di lingua inglese e condividiamo esperienze di assaggio per avere un confronto produttivo tra noi. Penso che sia un tassello imprescindibile nella ristorazione moderna. È un lavoro molto impegnativo da un punto di vista fisico e mentale, quindi, salvaguardare lo spirito dei ragazzi è un modo autentico per parlare di etica e sostenibilità delle risorse umane“.
Un bagaglio identitario che attraversa fluido le sfumature espressive del San Brite e che non è riconducibile al singolo piatto assaporato. Tra il degustazione Germoglio (che ne riassume le portate più storiche) e il più complesso Sentiero, la vera forza che emerge è la filosofia di base e la voglia di migliorarsi sempre. “Pur traendone beneficio, ci rendiamo conto di quanto tutto ciò sia faticoso, a tratti stancante” concludono Ludo e Ricky all’unisono. “E noi smetteremo proprio solo quando non ci divertiremo più. Perché, finché troviamo stimoli concreti, risulta anche una missione estremamente divertente”.
Genesis & sfide future
Instancabili, con un ascendente particolare da parte di Ludovica, i nostri due prodi hanno dato il via nel 2021 a una prima edizione di un evento che rispecchia l’attitudine promossa nelle loro diverse attività. “Gli eventi di cucina mi apparivano sempre molto ripetitivi e noi volevamo far vivere in maniera ancora più diretta alle persone la nostra visione del bosco, della montagna e della capacità ricostituente che ci infonde quotidianamente – spiega Ludovica – così abbiamo dedicato delle giornate durante la bella stagione alla possibilità di tornare alle origini e distaccarsi completamente dalla routine frenetica e dallo stress della città. Un ritrovo per pochi intimi addetti al settore e per un altrettanto numero ristretto di partecipanti esterni, ove la prima regola era quella di abbandonare lo smartphone appena accomodati in albergo. Sotto il nome di Genesis abbiamo cercato di condensare i valori primari in cui crediamo, ripartendo dagli elementi base della natura, quali fuoco, acqua, aria e terra. Un tentativo, a modo nostro, di coinvolgere anche cuochi vicini a noi seppur provenienti d’altre parti d’Italia o del globo. Amici che condividessero il nostro pensiero. Sono stati momenti di stacco rinfrancante e rigenerativo, percepiti molto bene da tutti i presenti. Giorni scanditi da passeggiate in montagna; esibizioni artistiche a impatto zero con il territorio; corsi di foraging; serate trascorse in tenda in ascolto contemplativo della foresta; sessioni di meditazione yoga; raccolta dell’acqua dalla bocca della sorgente e un’esaltazione conclusiva del fuoco attraverso una cucina primitiva di sola brace. Un successo talmente spontaneo e lineare che ci spingerà sicuramente a replicarlo negli anni a venire”.
Last but not least, Ludovica e Riccardo ci confidano anche il desiderio futuro di ampliare l’offerta del San Brite con tre piccole stanze, da ricavare nel piano superiore della struttura, grazie alle quali potranno completare la loro idea di ospitalità. Insomma, un ecosistema che è ben saldato nel suo ciclo chiuso e non riesce proprio a star fermo. Un esempio unico, coerente e mutevole, che a noi piace proprio tanto. Così com’è.