“Era il 2005, a tarda sera, in un’osteria. Mi raccontano che queste vigne, di proprietà di un piccolo industriale della zona che faceva vino, erano in vendita. Lo condivido a casa, con i miei, e tutti dicono sarebbe bellissimo prenderle. Io sapevo che era antieconomico, perché i vini dei Colli Bolognesi si vendevano a un prezzo medio di 3 euro a bottiglia. È per questo che quando i vecchi muoiono le vigne si tolgono e i diritti d’impianto finiscono laggiù”. Mentre parla Federico Orsi indica giù in basso l’immensa Pianura Padana. Siamo sulla collina di Oliveto, in Valsamoggia. Laggiù a sinistra si vede Modena. A destra, invece, c’è Bologna, sotto la collina di San Luca. Nelle giornate di cielo terso è facile distinguere anche le due torri.
Quelle vigne le ha comprate lo stesso, perché pochi chilometri di curve più in basso, a Pragatto, c’era il Casino – il nome tradizionalmente dato nel bolognese alle residenze di campagna – di famiglia, quello dei suoi nonni materni, che ospitava un’azienda agricola multifunzionale. Quella realtà, quel ricordo, è oggi una guida: anche se l’azienda si chiama Orsi Vigneto San Vito, Federico non è solo un vignaiolo.
“Ho lavorato per tornare all’azienda che avevano i miei nonni, dove c’erano l’uva e il vino ma non erano una monocultura” spiega Federico.

Per raccontare (bene) questa storia dobbiamo riavvolgere il nastro, tornare indietro di più di quarant’anni. “Sono nato a Bologna, ma con i miei genitori ci siamo trasferiti in Brasile alla fine degli anni Settanta, quando avevo 3 anni. Loro sono ancora là e con loro i miei fratelli. Sono l’unico che è tornato in Italia, per iscriversi all’università. La famiglia di mia madre qui in Valsamoggia aveva quest’azienda agricola, di cui conservo i ricordi da piccolo, quando in estate venivo in vacanza e vivevo qua con i miei nonni. L’azienda è stata poi divisa, spezzettata. A mia mamma è stata lasciata la casa principale, senza terra”.
Federico a Bologna studia Ingegneria gestionale. Nel frattempo, a vent’anni segue il corso di sommelier con l’amico Stefano Papetti Ceroni (avvocato, da una decina d’anni anche lui è vignaiolo e contadino, in Abruzzo, dove gestisce l’azienda agricola De Fermo). Insieme hanno dato vita a CoViBio, l’unica distribuzione di vini artigiani gestita direttamente da un gruppo vignaioli).
“La passione del vino ce l’ha passata mio nonno. Era veneto, reduce di guerra, un alpino nella divisione Cuneense, che negli anni Cinquanta si portava i figli in giro per la Francia, a esplorare la Borgogna o la Champagne e poi le Langhe – racconta – Durante l’università ho lavoricchiato come sommelier, ma dopo la laurea avevo messo da parte la mia passione: ho lavorato in una società di consulenza, in Italia ma anche in Spagna, in Inghilterra, in Francia. È stata una bellissima palestra, che avevo scelto perché volevo fare un MBA (Master in Business Administration, ndr) all’estero. Volevo fare quel lavoro per 4 o 5 anni, per poi formarmi ancora di più e a quel punto forse non sarei mai più tornato in Italia. Ma mia mamma era cresciuta in questa casa, che rischiava di rimanere abbandonata, senza più vita” ricorda Federico.
“Senza più vita”, dice Federico che ha fatto della fertilità del suolo l’obiettivo del suo lavoro, che in pochi anni l’ha portato da ingegnere a diventare vignaiolo e poi contadino del futuro a 360 gradi. Premessa: “questa zona, anche per motivi morfologici, è vocata alla qualità” dice Federico. Qualità non è sinonimo di piccole produzioni: non è la scala a definirla, ma l’approccio. “Tanti mestieri nascono dal gesto e il vino era senz’altro un prodotto artigiano fino a 50 anni fa. Poi è diventato industriale: le cantine sociali fanno milioni di ettolitri, i piccoli produttori per paura o per mancanza di conoscenza vanno nel negozio di prodotti enologici per comprare un lievito o un chiarificante. Il vero problema in questo territorio è per certi versi il successo del pignoletto fatto in autoclave, che obbliga tra l’altro ad acquistare uno dei macchinari tra i più costosi che possano entrare in una cantina”.


Quando Federico acquista la vigna è il 2005. Ha 30 anni. Si pone immediatamente un paio di domande: “Perché fare vino qui? Perché una persona dovrebbe comprare il mio vino? Come valorizzare il prodotto? – racconta – A quel punto della mia vita mi ero rotto le balle di bere tutto quello che avevo bevuto nei 12 anni precedenti, la ricerca dei Tre bicchieri, l’ossessione per i punteggi di Parker, i vini firmati dai grandi enologi: non mi interessava più e andavo a cercare piccoli produttori artigiani, che in quel momento erano Radikon, La Stoppa, Cascina degli Ulivi, frequentavo i primi Critical Wine. Decisi che se avessi fatto vino, sarebbe stato così”. La leva su cui poter agire è la vocazione del territorio. “Qui dietro c’è l’Abbazia di Monteveglio, giù in pianura c’è quella di Nonantola: si trovano delle testimonianze del vino prodotto sulla collina di Oliveto nell’anno 1050 che veniva regalato a Matilde di Canossa per la sua qualità. Se qui da mille anni fanno vino forse ci siamo persi qualcosa”. Se il precedente proprietario tra il 1995 e il 2000 aveva piantato cabernet franc, cabernet sauvignon, merlot, syrah, chardonnay e riesling, Federico come primo passo introduce varietà locali. Oltre al pignoletto, l’alionza, il negretto di Giorgio Erioli vignaiolo in Valsamoggia (che è un’uva tannica, che regala poca acidità e tanto tannino), la malvasia di Candia “che ho preso da La Stoppa” (l’azienda di Elena Pantaleoni sui Colli Piacentini) e l’albana. “Ho 15 ettari, di cui nove e mezzo a vigna, il resto sono cavedagne, strade di passaggio o boschi. Il vicino, ex socio, aveva piantato altri quattro ettari e mezzo, che da dodici anni sono in affitto. Più in basso, invece, ho un altro ettaro votato a vigna da più di 50 anni. “Ho solo un confine di 100 metri a rischio e lì ho fatto crescere una siepe, per isolarmi”. Federico si isola perché Orsi Vigneto San Vito lavora in biodinamica.
“Abbiamo iniziato con i trattamenti nel 2006 e oggi posso dire che raccolgo un’uva diversa, fortemente legata al territorio. Tra i filari evitiamo la compattazione, lavoriamo con sovesci, la radice scende in profondità” spiega.
In cantina i passaggi sono conseguenti: prima di tutto, sparisce l’autoclave; nel 2008, tutti i rossi sono vinificati in modo naturale; dal 2010 anche i bianchi. Dal 2012 non entrano più lieviti selezionati e non c’è più enologo. “I miei vini assumono caratteristiche peculiari e importanti. A quel punto il mio vicino mi invita ad ampliare la superficie dei vigneti, ma io sto già immaginando altro”.

Per le date ha bisogno di consultare la galleria di foto sul cellulare. Poi elenca: “nel 2011 ho avviato l’orto, nel 2012 ho messo le galline; nel 2013 sono arrivati i maiali e all’inizio del 2014 ho fatto la mia prima mortadella. Nel 2013, credo, abbiamo messo giù per la prima volta i cereali”. Mentre racconta, Federico fischietta per richiamare i maiali. Sono allevati allo stato semibrado. Tengono pulito il sottobosco. Sono grossi, la razza è la Mora Romagnola. I quattro che vediamo sono pronti per il macello: ci andranno tre giorni dopo. Normalmente vengono “sacrificati” (questa l’espressione che usa Federico, che fatica a parlarne di fronte a loro) a Natale, ma nel 2020 – con il Covid – non ha avuto senso.
In dieci righe densissime Federico riassume il suo credo: “Il progetto della mia mortadella è nato come una provocazione: nessuno l’aveva mai fatta con un maiale nero allevato così. È una mortadella che usa più parti dell’animale, mentre quella classica ha almeno il 20% di trippino, che è un prodotto di bassissimo valore economico e nutritivo, non costa un cacchio e regala la sensazione gelatinosa, ma se pensi di usare solo il tuo animale… non è possibile che un quinto del peso sia trippa. Inizio a lavorare con la macelleria di Massimo Zivieri a Zola Predosa (BO) e oggi nemmeno lui mette più il trippino nella sua mortadella. Poi inizio a lavorare sulle spezie: sale di Cervia, aglio di Voghera, pepi macinati al momento, noce moscata. Il mio è un progetto aperto: divulgo la mia ricetta. Non diventerò mai un produttore di mortadella – gli animali che allevo, otto in tutto, mi bastano per l’organismo aziendale – ma vorrei poter influenzare chi lo fa: voglio alzare l’asticella del prodotto”. Quando parla di organismo aziendale (un concetto chiave per capire l’agricoltura biodinamica, al netto delle accuse pesanti contro queste pratiche agricole che sono state lanciate in Senato alla fine della primavera del 2021) Federico fa riferimento al letame dei maiali, che è usato come fertilizzante, o agli scarti dell’orto che finiscono nel recinto dei maiali e diventano cibo.

L’orto occupa un ettaro e mezzo e dà lavoro a due persone. “Quando ho iniziato, la mia idea era quella di lavorare solo con i ristoranti – racconta Federico mentre passeggiamo tra melanzane e pomodori e passiamo di fianco all’orto invernale, tra i cavoli in fiore – Volevo recuperare gusti e sapori un po’ persi, costruire una vera partnership con chi cucina per scegliere insieme le varietà da piantare. Se lavoro in biologico o in biodinamica ma vendo all’ingrosso a un’unica piccola catena di distribuzione, finisco col tornare all’idea dell’agro-industria, perdo l’artigianalità. Se su un ettaro faccio solo un tipo di pomodoro, di un’unica varietà, raccolto tutto in una volta, non ha senso: noi invece lavoriamo sulla biodiversità e pretendiamo la presenza dei cuochi qui. Non per sfruttare la loro manodopera nella raccolta ma per scambiare idee, ragionare sugli approcci” sottolinea Federico.
Tra i partner – fin da subito – c’è Amerigo 1934, trattoria e locanda storica dell’Appennino bolognese, a Savigno. Poi Zaira, enoteca con cucina a Bazzano, all’inizio della Valsamoggia. E l’agriturismo dell’azienda vitivinicola Corte d’Aibo, a Monteveglio (BO). Queste due realtà fanno parte – con Orsi Vigneto San Vito – della rete ViviValsamoggia, che riunisce una decina di produttori e interpreti del territorio per lavorare insieme sull’incoming e la promozione turistica. Oggi verdure e ortaggi arrivano anche a Bologna, alla trattoria siciliana Pane e Panelle. “Con tutti fissiamo insieme un budget di spesa settimanale e ogni settimana proponiamo l’ordine. La tavola si adatta a ciò che c’è nell’orto” riassume Federico. Un esempio pratico arriva dalla serra dei pomodori, dove trovano spazio in filari misti almeno una decina di varietà. “L’idea è che non sia tu a scegliere la varietà, ma che siamo noi a raccogliere per te il mix di quella settimana, che sia San Marzano, Costoluto, Cuore di Bue. Questo significa che il piatto cambia sempre, leggermente – sottolinea Federico – Consegno due o tre volte alla settimana le verdure appena raccolte perché siano lavorate fresche. L’idea è di poter fare a meno della cella frigo”. Si seminano varietà antiche e varietà esotiche, come la mizuna, una senape asiatica. Ogni cuoco diventa l’ambasciatore dell’orto. Nel periodo ponte tra inverno ed estate, a marzo e aprile, le cassette si riempiono di selvatiche, di fiori, di misticanza. Mentre parliamo, Federico gira per l’orto raccogliendo rosole e farinacci, spinaci selvatici, con cui a pranzo preparerà uno splendido risotto dal campo, dimostrando che si può fare.
Il rapporto con la ristorazione, o meglio con gli artigiani del cibo, ha tanti punti d’approdo: con il reparto pizze di Forno Brisa, ad esempio, Federico ha messo a punto alcune ricette realizzate con quelli che comunemente verrebbero considerati scarti, come le foglie del cavolfiore o quelle del radicchio, le cime dei finocchi o i carducci del carciofo.
Questo percorso esplode nella cucina di Ahimé, il ristorante di Bologna di cui Federico è socio. Ha aperto nell’estate del 2020. “Avevo voglia di creare un ristorante guidato dall’orto, che non fosse vegetariano ma quasi. Ho trovato la persona giusta parlando con Lorenzo Costa, già titolare di Oltre. Quando gli ho presentato il mio progetto, lui mi ha spiegato che aveva individuato lo chef adatto per la cucina, Lorenzo Vecchia. Con noi c’è anche Gian Marco Bucci, romagnolo: da Oltre ha maturato un’esperienza importante in sala, su vini naturali e specialty coffee. Tra di noi non abbiamo dovuto discutere nulla – dice Federico – da Ahimé i piatti cambiano in continuazione. L’idea di fondo è non aver ricette e sperimentare: la mizuna che è andata a fiore la essicchiamo e poi ne facciamo una polvere. Il cavolo nero a fiore lo abbiamo messo in salamoia, per una latto-fermentazione”.


Gli chef devono tornare a sporcarsi le mani. Dei maiali che verranno macellati da lì a poco, Federico spiega che un paio sono per la cucina di Ahimé, “dove verrà usato tutto il maiale, intero, comprese le teste, ovviamente non facendo hamburger ma valorizzando tutto l’animale, per una forma di rispetto”. S’interrompe, spiega che ha fastidio a parlare di queste cose davanti a loro, cioè ai quattro splendidi esemplari di Mora Romagnola che ci grugniscono intorno, si avvicinano e accolgono le carezze sul vello. “Con gli zampetti, forse non fai nemmeno un servizio” sottolinea Federico, ma è solo con questi passaggi che il pubblico – e gli chef – possono capire il lavoro contadino e farsi artigiani. Lo stesso messaggio si respira nel legame con chi fa il pane: oltre a Forno Brisa, Orsi collabora con il Forno di Matteo Calzolari, che nasce a Monghidoro, il paese più alto dell’Appennino bolognese, a quasi 850 metri sul livello del mare, ma oggi ha diversi punti vendita anche in città. Tra i campi di Federico ce n’è uno coltivato a farro: chi vuole cimentarsi con la panificazione domestica lo trova anche insacchettato nei negozi di Calzolari (ovviamente, quello coltivato del 2020). “Per favorire le rotazioni, quest’anno piantiamo anche 6 varietà di semi di girasole, che poi Matteo utilizzerà per fare il pane. Un po’ arriva dall’Italia, il resto dalla Francia. Non li abbiamo pagati: abbiamo barattato un po’ di vino. Mi piace tanto lavorare così” racconta Federico.
Federico vorrebbe portare nella ristorazione e nella collaborazione con chi fa il pane lo stesso messaggio che per il vino artigiano è ormai sdoganato: la diversità non è un limite ma un valore. Per esplicitare il concetto – prima di scendere al Casino di Pragatto a cucinare le erbe raccolte tra l’orto e la vigna – facciamo un giro nella cantina da cui escono ogni anno tra le sessanta e le settantamila bottiglie. Oltre al Pignoletto (sull’etichetta è semplicemente “Sui lieviti”) e all’M&M – nome curioso per un vino che nasce dal blend di uve pignoletto (50% fermentato in cemento) e malvasia di Candia (50% macerata in anfora per 3 mesi) – Federico ci presenta la Posca, il suo vino perpetuo, nella doppia versione Bianca e Rossa.
“A fare questo vino che cambia ogni mese ci siamo arrivati per caso. Abbiamo ripreso la tradizione del vino perpetuo che i contadini facevano per cercare di dare continuità, ma lo interpretiamo in modo diverso: ci aiuta a esaltare le differenze – racconta Federico.


“Tutto è iniziato frequentando a Bologna il Mercato Ritrovato, dove portavo il vino in damigiana o in bag-in-box e le persone venivano ogni settimana con il proprio contenitore a riempirlo. In pratica, ogni settimana andavo a imbottigliare e a colmare, ma alla fine il vino rosso del 2008 è finito, allora ci ho messo il 2009, poi il 2010. Quando ho colmato con il 2012 l’ho trovato particolarmente interessante, per trama e intensità. Dentro non ci sono solo barbera e negretto (i due vitigni a bacca rossa oggi presenti in vigna), ma c’è anche la memoria del merlot, del cabernet franc e della syrah” spiega Federico. Nel 2011, è partita anche la Posca Bianca, che oggi contiene dieci annate. “È come se ci fosse un lievito madre che io rinfresco ogni mese e cambia sempre: la madre dà la complessità e ogni 12 mesi il 50% della vasca viene rinnovata. Questo ci regala un vino in continua evoluzione, che porta dentro la storia dell’azienda, le annate calde e quelle fredde, le annate piovose e quelle siccitose”.
Un ritratto fedele del vignaiolo del futuro: in continua evoluzione, come i progetti di Federico Orsi.