PROLOGO: IL FIGLIO DEL MACELLAIO
In una fredda macelleria di un paesino dell’Italia del Nord, un ragazzino ripulisce dal grasso un pezzo di carne più grosso di lui, in religioso silenzio. Suo padre, il macellaio del paese, è un personaggio che incute soggezione e, nonostante le dita irrigidite dal freddo, il ragazzo lavora senza un lamento, un po’ per timore del padre, un po’ per eccesso di orgoglio.
“Mio padre era macellaio, di quelli tosti, duro come l’acciaio. Un uomo d’altri tempi, sanguigno come un fegato fresco… So di essere sincero quando dico che da ragazzo ero triste, con le lacrime sempre in agguato, perché non lo capivo… Mio padre teneva sempre tutto pronto per i clienti… Si occupava con cura di ogni minimo dettaglio…. Conosceva bene i clienti e i loro gusti… Vendeva senza essere incalzante, con classe ed eleganza. Sapeva tutto (e dico t-u-t-t-o) sulla carne… La vendita era, in tutto e per tutto, una dimostrazione di rispetto da ambo le parti… Oggi ho accettato il suo modo di essere perché sono finalmente in grado di capirlo, il tempo e l’esperienza acquisita mi sono stati d’aiuto. E in fin dei conti ‘Io sono mio padre’.”
Tratto da Brain (not more), un racconto in inglese di Gianluigi Bonelli.


HONG KONG, PREAMBOLO
Estate in città, Hong Kong è sotto una cappa soffocante. Gianluigi Bonelli si destreggia abilmente nella folla di turiste cinesi che si muove lenta davanti alle vetrine, infradito ai piedi e minigonne. Con l’aspetto di un calciatore atterrato da un altro pianeta, Bonelli sfida l’afa vestito di nero da cima a fondo, unica concessione un lampo rosso sui calzini o la striscia Prada dello zaino. Alto e magro, i capelli ordinatamente pettinati all’indietro e raccolti in una coda di cavallo, esibisce un portamento di classe, mentre si muove sicuro nel dedalo di luride stradine e tra i pacchiani centri commerciali della sua città d’adozione.
Siamo di ritorno da una visita, alle prime luci dell’alba, al Western, il mercato ittico all’ingrosso della città, una discesa verso gli umidi inferi dove mi avvisano subito che non è il caso di scattare foto: i venditori locali potrebbero non gradire di essere immortalati. Nei mercati asiatici come questo, i pesci arrivano vivi e guizzanti: quanto più grandi, tanta più forza ci vorrà per spostarli nelle vasche d’acqua sempre fresca. Attraversando gli immensi magazzini scorgo anguille giganti, mostri marini iridescenti, tonni monumentali, una rete di rospi furibondi. Qui, tutto è commestibile.
Mentre sorge l’alba sul Victoria Harbour e lo skyline della città inizia a delinearsi contro un cielo ancora cupo, ci addentriamo nel mercato di frutta e verdura dove la produzione asiatica di ogni dove viene esposta in ceste di bambù e preparata per le migliaia di alberghi e ristoranti della città. Bonelli si lancia da una bancarella all’altra, scegliendo qui un contenitore di tofu fresco, lì un mazzo di fiori di esile erba cipollina o una cassa di frutta esotica. Il suo vice cinese, nostra guida e scorta, si fa avanti per concludere con i commercianti mentre noi acceleriamo.
Dopo una tipica colazione dim sum in una tradizionale bettola cinese, torniamo, via acqua, verso Tsim Sha Tsui, sulla Penisola di Kowloon, a nord dell’isola di Hong Kong. È qui che si trova il The Luxe Manor Hotel, che ospita l’esclusivo ristorante di Gianluigi Bonelli, il G.E (Gastronomy Extra|Ordinaire).
Ma appena varcata la soglia del The Luxe Manor, l’atmosfera cambia. L’arredo della lobby in stile eclettico europeo – pareti decorate con mosaici artistici, mobili di gusto neobarocco e dettagli stravaganti – lascia presagire degli interni originali, come potremmo trovare in qualunque vera capitale del design. L’ambiente è raccolto, le 159 camere si innalzano infatti discretamente come in una torre. Anche queste propongono uno stile personalizzato e si ispirano agli spazi comuni dell’albergo, con arredi iconici che vanno dal rococò agli anni ’70, con strati di colori e materiali. Il servizio e la cura del dettaglio sono impeccabili, e fanno del The Luxe Manor il luogo ideale per un ristorante insolito e creativo. Sono felice di potermi ritemprare al fresco, nel comfort della mia camera, prima di avventurarmi giù per cena.


PRIMO PASSO: A CHE TAVOLO ACCOMODARSI?
Attraverso i labirintici interni vengo scortata verso il ristorante dello Chef Bonelli, dal cosiddetto Dada Bar lungo un breve corridoio monocromatico. Quattro salette private, ciascuna con un tema specifico. “Dove preferisce cenare?”, mi chiede il maître cinese, elegantissimo nel suo costume mandarino nero. Che scelte ho? Scarto l’‘Orient Express’, che mi ricorda un gentlemen’s club d’altri tempi, con alla parete un gigantesco orologio a spirale che scorre al contrario – un inconsapevole omaggio al World’s End di Vivienne Westwood a Londra. Troppo familiare per i miei gusti.
Do una sbirciata a un’altra saletta, molto più notturna – tutta peccaminosamente nera e oro – con pavimento vetrificato rosso vibrante come lava, che mi ricorda i locali d’azzardo ne I Misteri di Shanghai, un film di von Sternberg del 1941: luogo ideale per dissolutezze, che potrebbe tuttavia distrarmi dal mio obiettivo, il cibo. Poi c’è lo stile art déco della ‘Heaven’: un paradiso bianco immacolato e specchi, dove troneggia un maestoso tavolo barocco in cristallo sotto un enorme lampadario. Rimango rapita innanzi al suo splendore celestiale, fin quando non vengo condotta in fondo alla sala, nel fantastico mondo dell’‘Eden’. È una delle sale da pranzo più scenografiche e romantiche che mi sia mai capitato di vedere: un avvolgente nido floreale che è un rimando a Rousseau, mentre soffitto e pareti sono ricoperte, fino al pavimento, di ghirlande di fiori in seta rosa, con un pizzico di cineseria nella carta da parati e nelle sfumature cangianti del tavolo in madreperla. Un giardino segreto ideale per una festa di una notte di mezza estate. La colonna sonora? Canti d’uccelli, naturalmente.
Questi microcosmi, pur così diversi tra loro, hanno qualcosa in comune: guardano tutti all’interno, come rivolti su di sé. In quest’ambiente senza tempo, catturati tra giorno e notte, il sole e la luna non splendono mai. In contrasto con la tendenza di altri locali moderni, che puntano sempre più sull’illuminazione naturale, Bonelli crea atmosfera con la luce artificiale, per cui non saprete mai – o non vi interesserà mai sapere – che ora è effettivamente. È uno stacco con l’esterno. Per voi, ma anche per lui.








FREE FOOD
Anche la cucina di Bonelli è autoreferenziale. Libera da vincoli di stagionalità, origine o tradizione. “Sono italiano, e se vado a cena fuori, non mi va di mangiare i piatti di mia madre”, dice.
“Voglio provare qualcosa che riesca a stupirmi. Qualcosa che non ho mai assaggiato prima. Potrà essere un frutto del drago in macedonia. Per me sarebbe una novità. È così che la penso. Ed è per questo che i clienti mi danno carta bianca sul menu”.
“Tra l’altro non credo a una cucina vincolata solo agli alimenti locali”, dichiara. “Sono a Hong Kong e non voglio proporre solo tofu ai miei clienti. Voglio che possano provare la miglior aragosta australiana, il polvoron delle Filippine o una mozzarella italiana. La Sicilia ha il miglior avocado del mondo, perché non dovrei comprarlo lì? Al giorno d’oggi posso sollevare il telefono e ordinare prodotti che mi saranno recapitati l’indomani. Non voglio sentirmi costretto”.
“Tra l’altro non credo a una cucina vincolata solo agli alimenti locali”, dichiara. “Sono a Hong Kong e non voglio proporre solo tofu ai miei clienti. Voglio che possano provare la miglior aragosta australiana, il polvoron delle Filippine o una mozzarella italiana. La Sicilia ha il miglior avocado del mondo, perché non dovrei comprarlo lì? Al giorno d’oggi posso sollevare il telefono e ordinare prodotti che mi saranno recapitati l’indomani. Non voglio sentirmi costretto”.
In un periodo in cui i prodotti locali sono diventati quasi un’ossessione, può apparire come una provocazione. Che si giustifica in parte con il fatto di essere a Hong Kong, dove si importa quasi tutto. Ma con Bonelli ti rendi conto che ogni ingrediente viene scelto per la sua peculiarità, come un elemento in un esperimento o un attore in una pièce teatrale, piuttosto che per come si inserisce nel suo paesaggio naturale. Bonelli vuole mantenersi libero da vincoli fisici o culturali.
L’enorme menu di carta si presenta più come una lista di equazioni scientifiche che come un invito a cena. C’è perfino una chiave diagrammatica per aiutarvi a decifrarlo. Ecco l’esempio di uno dei piatti estivi, dove il granchio è l’indiscusso protagonista:
granchio³– polvere – nitro – cavolfiore³ – cacao – polvere & gelatina – macro – coriandolo – bianco – uovo – strapazzato – essenza – granchio – riso – soffiato
(Nota: Come il resto del menu, è scritto nell’inglese imperfetto di Bonelli, anch’esso parte dello charme. In apice il numero di volte che l’ingrediente viene usato nella ricetta.)
La cucina di Bonelli è esattamente come lui: immaginativa. Introspettiva. Transculturale. Competente. Poliedrica. Peculiare. Ogni piatto è una raccolta, un crescendo di colori, consistenze e sapori. Più ti concentri, più dettagli vi scopri. Non sarà un caso che a firmare le sue creazioni, Bonelli vi apponga un simbolino che ricorda una lente d’ingrandimento. A sostenere gli insoliti accostamenti di ingredienti – come gli spaghetti filippini, il croissant tostato e l’uva bianca nella ricetta dei carciofi – la padronanza delle tecniche, i metodi più scientificamente molecolari e le solide conoscenze dei migliori metodi tradizionali di cucinare carne e pesce. Ciò che conta, qui, è il risultato finale: espressi al meglio, i piatti di Bonelli evocano stati d’animo diversi, proprio come le quattro salette progettate per degustarli.
CENA IN GIARDINO
Nascosta nell’’Eden’ come la Ada di Nabokov nei giardini di Ardis e spinta da pari ardore, inizio a mangiare. La cena ha inizio quando prende vita un bozzetto da uno dei blocchi di Bonelli: un cracker di gambero croccante e leggero, decorato con ventresca di tonno, erbette e zenzero sott’aceto, riesce a proiettare le papille gustative in un viaggio asiatico per mare. Poi, in omaggio alla torta cotta al microonde di Albert Adrià, arriva quella di spugnole, leggermente affumicato all’aroma di legno di melo, come fosse un incenso. Vengo istruita sulla salsa – una béchamel con parmigiano e noce moscata – da spremere da un dispenser di plastica nera. E mentre una rinfrescante mela verde, parte granita e parte spuma, si fa largo in un bicchiere da Martini, la tiepida concretezza lascia il posto a una delicata fraîcheur.
La ricetta del granchio, la cui definizione del menu è riportata più sopra, è un articolato e indimenticabile mare e monti. Servito in una ciotola in vetro dalla forma organica, Bonelli crea un microcosmo tiepido-fresco, fissandolo con un consommé ricco e gelificato di granchio e pezzetti di cacao gelée. E su queste note umami e amare, il cavolfiore diventa… floreale!
Ma ecco arrivare un vassoio dorato che potrei definire solo come una rapsodia in giallo. Bonelli dedica questo sprazzo di sole mediterraneo ad Alfonso Iaccarino, il grande chef campano con cui ha lavorato alla fine degli anni ’90, il cui ristorante sulla costiera amalfitana è stato il primo a battersi per i sapori dell’Italia meridionale. È un assemblaggio di colori tendenti al giallo – peperoni, pomodori, barbabietole, zucchine, zafferano – e consistenze straordinarie, dal friabile allo spugnoso, passando per il levigato. Servito con un sake junmai daiginjo di Kuheiji, è pura poesia.
Può la pasta creare un’illusione ottica? Bonelli ritiene di sì, a giudicare dai suoi audaci noodle. Per uno chef italiano, presentare un piatto di pasta viola e rosa che assume la forma di una medusa, dando a intendere solo alla fine che si tratta di spaghetti coreani di riso tuffati nel cavolo rosso e Mirin, è quasi una forma di irriverenza. O di provocazione. Aggiungetevi una nota di polvere di arachidi salate, tapioca di cocco, saté caramel e scampi splendidamente croccanti, e avrete un piatto asiatico dal sapore di un dessert.
La pasta torna in scena con il piatto successivo e anche stavolta niente è come sembra. Questi nastri ampi, traslucidi, hanno sì la consistenza e il movimento della pasta, eppure vi è un qualcosa nella loro struttura fibrosa che mi lascia perplessa… Ecco il sapore a svelarci l’inganno: queste prelibate fettuccine sono fatte interamente di branzino, battuto fino ad assumere lo spessore di un foglio di carta, poi cotte al vapore. Condite infine con caviale, scaglie di sott’aceti e un tuorlo d’uovo croccante e vellutato che mi riporta alla memoria la crema dei bomboloni italiani.
Sono i piccoli indizi scoperti a tavola che mi rivelano la passione di Bonelli per i dolci, ma nulla avrebbe potuto suggerirmi il dessert principale. Con sorprendente perizia viene riprodotto un posacenere usato – con tanto di fiammifero, cicca e tutto il resto – usando zucchero, spezie e altre bontà. Un piatto che molti definirebbero un filo kitsch, in questo paese delle meraviglie risulta un trionfo. Ho smesso di fumare ormai da tempo e preferisco l’alternativa più bella: mango, ibisco e fiore di finocchio con vino di prugna giapponese. La cena è stata un’avventura, non vedo l’ora di saperne di più del suo geniale ideatore.


STORIA DI UNO CHEF
“Sono sempre stato guidato dal desiderio di approfondire”, dice Bonelli, 40 anni. “Per questo ho lavorato con alcuni degli chef più all’avanguardia dei nostri tempi, da Ferran e Albert Adrià a Massimiliano Alajmo, Heston Blumenthal e Alfonso Iaccarino. “Ora capisco meglio perché fanno quello che fanno. Nel 1999, quando ero il numero due al Don Alfonso 1890, il primo ristorante a sud di Roma a vantare 3 stelle Michelin, preparavamo piatti elaborati mentre il resto del sud continuava a mangiare patate”, esclama. “Ero lì per imparare tutto quel che potevo su quegli ‘umili’ ingredienti”.
Dal Don Alfonso gli viene offerto un posto a Hong Kong. “Non c’ero mai stato prima, benché avessi viaggiato parecchio, ma la cosa mi incuriosì tanto da prenderla in seria considerazione”. Bonelli lavora due anni come capo chef nel ristorante di un grande albergo prima di decidere di tornare in Europa, stavolta al The Fat Duck, a fianco di Heston Blumenthal. Poi, per diversi anni, è capo chef all’esclusivo KEE Club di Hong Kong. “È stata solo una casualità se sono finito di nuovo a Hong Kong; io non sono un tipo da hotel, ma da ristorante. Sono stato il primo a introdurre a Hong Kong i concetti della cucina moderna”.
Nel 2010 gli viene offerta la possibilità di avere un suo ristorante presso The Luxe Manor. È lo stesso proprietario, affezionato cliente e sostenitore del KEE Club, a prospettargliela. “Mi ha dato l’opportunità di creare qualcosa che si addice alla mia personalità, dove lavorare in totale libertà ed essere innovativo quanto mi pare”. Anche le dimensioni sono perfette, con un massimo di 12 coperti a sera. “Sarebbe stato certo molto più semplice proporre piatti della cucina italiana: introdurre qui idee innovative non è stato per nulla facile. Hong Kong è una città molto tradizionale. Siamo sul versante opposto del porto rispetto al Distretto Centrale, il centro degli affari, e non tutti se la sentono di affrontare il viaggio per una cena. I cinesi, inoltre, non sono abituati a passare più di due ore a tavola, nemmeno per un’esperienza gourmet; da quel punto di vista dobbiamo dimostrare pazienza. Per fortuna possiamo contare su una solida base di clienti, sempre entusiasti di cenare da noi”.
In cucina, dove il personale è interamente cinese, Bonelli è al timone di una solida nave. Ora hanno imparato a capirlo meglio, grazie anche a una lavagna appesa in cucina dove ogni giorno disegna il suo umore: una fila di cerchi, nei quali gli basta aggiungere di volta in volta un sorriso o un’espressione triste.
NUMERO 10
Naturalmente ciò che Bonelli cucina e il modo in cui lo cucina, rientrano in una precisa linea ereditaria. Lui è un ‘Bulliniano’ dichiarato, sensibile all’influenza di Ferran e Albert Adrià per i quali ha lavorato una stagione. Il periodo trascorso in Catalogna lo ha segnato in modo indelebile. Quell’atmosfera analitica, da laboratorio di analisi e di sperimentazione ben gli si addice, d’altronde, perché qui le idee possono essere fini a se stesse e applicarsi a qualunque declinazione del cibo.
“Mi piace pensarmi con la maglia numero 10, come quei calciatori dotati di intuito, che preparano il passaggio, ma alla fine non segnano”, dice Bonelli.
“Non mi interessa essere la ‘stella’, preferisco tenermi lontano dalla luce dei riflettori. Sono un lupo solitario, uno zero sociale. Ma il numero 10 non gioca mai se non ha un buon motivo per farlo. Quindi o creo qualcosa di speciale, oppure preferisco non cucinare del tutto”.
Gianluigi Bonelli è un vero creativo, un progettista gastronomico felice di tirar fuori sempre nuovi concetti di cibo e di metterli in pratica. La sua energia creativa si estrinseca in diverse forme d’arte: ha pubblicato un racconto, una rivista, un libro di poesie e storie stravaganti, e un altro sui suoi dolci elaborati, con un’invidiabile prefazione a cura di Albert Adrià. I suoi quaderni sono pieni di disegni e progetti. Nel 2006 è stato invitato, come guest chef, al prestigioso Ikarus all’Hangar-7 di Salisburgo.
Il periodo con i fratelli Adrià gli ha insegnato, tra le altre cose, a fidarsi a essere se stesso. “Prima mi preoccupavo che i clienti potessero non capire – o non gradire – un piatto. Ora, invece, lo mando semplicemente in tavola. Mi lancio!”
L’ULTIMA PAROLA: IL TRIBUTO DI ALBERT ADRIÀ
“Bonelli. Non riesco a fare mente locale su quanti cuochi ho avuto come colleghi a El Bulli, ma credo siano stati centinaia. Di qualcuno ricordo poco, di altri solo il viso, di qualcuno il nome, sono pochi quelli che considero amici. È il caso di Gianluigi Bonelli, il Grande Bonelli, come mi piace chiamarlo… Mi sembra ieri quando lo vidi scendere le scale che portano alla cucina, la sua mole sovrastava tutti gli altri, anche il suo sguardo. Mi bastò un secondo per capire che era una persona speciale, che sapeva perché era qui. Il nostro rapporto in quei mesi fu di totale comunione e il suo atteggiamento nei confronti della cucina mi portò a cambiare anche la mia. Non vorrei scivolare nei luoghi comuni, ma mi piace sottolineare la sua umiltà, propria delle persone veramente grandi, e la sua estrema sensibilità che fanno di lui molto di più che un cuoco. Il fatto è che di Bonelli ce ne sono proprio pochi.”
Albert Adrià. Dicembre 2012
“Essendo in Asia da molti anni, nel mezzo de continuo via vai e conoscendo i gusti della popolazione (al cinese piace iniziare la cena con una zuppa calda molto liquida, e così faccio. Vuole i vegetali più croccanti, un fritto più soffice, poche salse, poco sale e via dicendo) ho sempre aggiunto ai miei menu cose comuni, riadattandole secondo la mia personalità, il mio stile, nel rispetto assoluto del paese in cui mi trovo. Qui c’è una pasta, i Noodle di riso, che viene dalla Corea, molto speciale, che marino (da cotta) una notte dentro il succo di cavolo viola con un risultato strepitoso. Aggiungo mirin e aceto cinese. La noodle secca è quasi trasparente: da cotta, viene servita calda dentro un brodo ma non mi piace molto, mentre da fredda è superiore alla soba, duttile per molte cose. Asciugata bene dal succo di cavolo viola con l’aggiunta dei due aceti (uno a base di mirin, l’altro cinese) cambia colore, cosa che facciamo al tavolo, per l’effetto sorpresa, un poco di sale ed è pronta. Consiglio di non metterla in frigo ma tenerla a temperatura ambiente, altrimenti diventa dura e non è più buona. Aggiungo un carpaccio di capesante, con olio di cocco, niente sale. Prima di preparare il piatto, passo una spennellata alla capasanta con della salsa coreana kimchi. Un caramello di miso bianco che dà salinità, qualche foglia di coriandolo, uno “streusel” fatto da arachidi e cocco fresco. Per finire una marmellata di kimchi molto dolce. Una creazione estiva legata all’Asia ma non direttamente a Hong Kong. Niente panna o burro, nessun olio classico. Il tutto è fluido e fresco, molto asiatico.”
… racconta Gianluigi Bonelli


Di recente Bonelli ha iniziato a sperimentare con i colori. Per Yellow Concept accosta una serie di ingredienti gialli – mini barbabietole, peperoni, pomodori, patate dolci e zucchine – conservati, passati e gelificati. L’aggiunta di cuscus lillipuziano, amaranto, formaggio fuso, pasta croccante e pane soffice, assicurano a questo raggio di sole nel piatto consistenza e gioco di contrasti.
Il Flat Fish, ovvero il pesce appiattito, è un accattivante trompe l’oeil: quelli che a prima vista ci sembrano larghe fettuccine marmorizzate, si rivelano invece nastri di branzino battuto, con un pizzico di transglutaminasi in polvere, sigillati sottovuoto e cotti al vapore… L’elegante arabesque è spezzato da salicornia, scaglie di sott’aceti, caviale, pezzeti di pasta dolce sablé, e la sua firma con tuorlo fritto, vellutato e croccante al tempo stesso.
Il gran finale: la tendenza di Bonelli a creare illusioni ottiche trova la sua massima espressione in questo dessert abilmente scolpito, Il posacenere e la scatola di fiammiferi. Ad esclusione del posacenere e della scatola che contiene i fiammiferi, tutto è commestibile!