La Gastrocrazia è il nuovo credo del cuoco Roberto Di Pinto, ed è una definizione che, come è facile intuire, unisce contenuti gastronomici a un’idea di democrazia a tavola. Anche se forse sarebbe meglio dire di equità, nel difficile equilibrio tra qualità e prezzo che vuole attirare l’attenzione di una clientela più giovane e, magari, poco incline a investire in esperienze gourmand di alto profilo. Invece il nuovo ristorante Sine, inaugurato a Milano, sembra proprio avviato su questa strada, con una bella carta di preparazioni sincere e originali e un menu di 5 piatti a 45 euro, oltre all’offerta under 25 che, in un giorno della settimana (il martedì), mette a disposizione un tavolo dove viene servito un menu a 35 euro. E c’è perfino il calice gastrocratico del giorno, proposto a 5 euro. A conti fatti sono prezzi più che concorrenziali visto il circuito dei ristoranti milanesi e ancor più considerata la qualità e la buona mano del cuoco.
Roberto Di Pinto e lo staff del Ristorante Sine
Che non è certo uno sprovveduto o un novellino alle prime armi. Il napoletano Roberto Di Pinto ha saputo ristrutturare una vecchia officina di moto trasformandola nella bella sala accogliente del Sine (a proposito, il nome del ristorante significa “Senza”), ma i suoi trascorsi lo hanno prima visto all’opera nella storica pasticceria Scaturchio a Napoli, dove, giovanissimo, era solo un garzone e dove ha appreso i segreti della pasticceria, in primis proprio quella partenopea. Poi sono arrivati i viaggi, a Londra da Fiore e da Conservatory e il rientro in Italia al Grand Hotel di Firenze. Non sono mancate la curiosità verso l’ondata molecolare esplosa a inizio secolo per raggiungere infine la stabilità degli ultimi anni a Milano, con la riscoperta di una spiccata vena partenopea e la frequentazione di grandi nomi all’Hotel Bulgari, dove ha occupato il ruolo di executive chef, ospitando ai fornelli cuochi del calibro di Dominique Crenn, David Thompson e Yannick Alleno per la rassegna Epicurea.
Passaggi intriganti e che hanno lasciato il segno qua e la nelle pieghe di un menu dove si strizza l’occhio a tanti stili e generi, anche se poi si ritorna quasi sempre all’ombra del Vesuvio. Certo, Milano non può mancare, con i Ravioli d’ossobuco che incontrano la gremolada mediterranea, ma qui si magnifica soprattutto la terra d’origine del cuoco, tra Friarielli in tempura, Conigli all’ischitana, Fusilloni al ragù di polipetti, peperone crusco e pistacchio e la Pizza fritta. Insomma, una concretezza di fondo con un brio decisamente moderno e che spinge ancor di più al momento dei dolci. Dove ritroviamo un classico di Di Pinto, il Sacro e Profano (babà al rhum e gelato al popcorn), ma anche le rinfrescanti 4 L di Lime, limone, lemoncello e lemongrass, o il più impegnativo Tiramisù con funghi e caffè. La carta dei vini è stata realizzata in modo da essere funzionale all’abbinamento al tavolo (c’è anche qualche buona birra artigianale), quindi senza troppi fronzoli e non particolarmente estesa, ma alcuni riferimenti in più forse non farebbero male. Può invece diventare un must il tavolo in cucina, che Roberto Di Pinto sta seriamente pensando di realizzare a breve. Visto il carattere vulcanico e verace del cuoco diventerebbe una cena sicuramente speciale.
From Camembert to Kinder, How the UK Are Preparing Their Food Supplies
Written by David J Constable
As Britain prepares for a No-Deal E.U. Exit, fears of food shortages have people concerned over the imported foods that have, for many years, been part and parcel of British culinary life. As the possibility of a no-deal Brexit increased after a proposed deal by Minister Theresa May was rejected by the U.K. parliament, many are making preparations by stocking up on necessities imported from the E.U. After all, what is Great Britain without Nutella, Magnum ice creams and macaroni cheese?
A
frustrated country has become a panicked one. Can the U.K. import, will they
import, will other E.U. countries even allow them to import? This has created
food anxiety at home. My goodness, where will all of the Camembert, chicken
Kievs and boxes of Ferrero Rocher come from? Will Britain ever see a Kinder Egg
again?
Camembert
Many are
taking action, bulk-buying and stockpiling, filling fridges, freezers and
basements with essentials and their favourite go-to snack. And, while I haven’t
taken hoarding foods (yet), I fear for my balsamic vinegar and Piedmont wines.
The gravity of the situation is becoming very apparent.
Currently,
the import versus export position of the U.K. is very unbalanced. To put this
into perspective, in 2015, the country imported £38.5 billion of food and
drink, but only exported £18 billion worth of food. Things are already
difficult, and the uncertainty of the future is quite rightly confusing. If
indeed, a deal can be agreed and foods allowed to continue their importation,
it will, very likely, be at a higher cost to the U.K. public. The likes of
Nescafe (14%), Marmite (12%) and Mr Kipling Cakes (5%) have already seen a
price increase within the last 12 months.
Magnum Ice Cream
Last month,
Unilever — the British-Dutch transnational consumer goods company — admitted to
stockpiling Ben and Jerry’s ice cream and Magnum bars ahead of the UK’s
departure from the European Union. The firm’s Leeds factory, which makes Sure,
Lynx and Dove, supplies the whole of Europe, while its ice creams are produced
on the continent.
The
political uncertainty has been reflected in the increasing sales of
“Brexit Boxes” – a care package, worth €330, containing dozens of
tins of macaroni cheese, pasta bolognese, chicken tikka, sweet and sour
chicken, and beef and potato stew, as well as a water filter and a fire
starter. The boxes are being sold by James Blake who set up the company
Emergency Food Storage U.K. in 2009 with the aim of “making emergency preparedness
as simple as possible”. Blake began selling the “Brexit Boxes” in
December and is now selling around 25 a day.
Emergency Food Pack
Staffing
issues have already been affected with many E.U. nationalities worried about their
status and leaving industry jobs — kitchens, cooks, the front of house — to
return home. As for the ingredients itself, a positive spin could be a more
inherit approach to sourcing and cooking, with chefs forced to be more creative
with the application of U.K. only produce. A good thing, surely. No more
watered-down Danish bacon. Goodbye to Polish mushrooms. See ya later squishy
Spanish tomatoes!
All of this
begs the question: what will happen to the famed English Breakfast, a meal of
incomparable gut-busting perfection, and often assembled via a list of imported
E.U. ingredients. It is adaptable, catering to all tastes; the great
interchangeable meal with an abundance of choice, the Marilyn Monroe of
breakfast — as potent for a hangover as a litre of Alka-Seltzer.
English Breakfast
For eggs
and toast, the U.K. will be fine. The British egg industry can produce enough
for the country to be entirely self-sufficient in eggs. For bread, 85% of the
wheat used by U.K. flour millers is homegrown. The flour produced is also from
the U.K. with only 2% exported. As for sausages, bacon, tomatoes the news may
not be so good. British farmers currently produce only 40% of the pork eaten in
the U.K. The other 60% comes from E.U. countries such as Denmark, Germany and
the Netherlands. Baked beans are mostly US imports, but tomatoes grow mostly
where it is hot, immediately cancelling out the U.K. — although glasshouses are
used.
With the great English Breakfast seemingly under threat and Magnum ice creams about to vanish, the full effect of Brexit is put into a new light. It doesn’t bear thinking about.
https://i0.wp.com/cookinc.it/wp-content/uploads/2019/02/Brexit-Image-2.jpg?fit=801%2C599&ssl=1599801Gretahttps://cookinc.it/wp-content/uploads/2019/01/logo2x.pngGreta2019-02-22 10:39:092019-12-03 12:54:38STOCKPILING FOR BREXIT
Avete presente la notte degli Oscar con tanto di candidature e vincitori: miglior film, miglior miglior attore, miglior regista, miglior film straniero, miglior colonna sonora, ecc. ecc.? Bene, anche la ristorazione ha avuto ieri sera – il tanto atteso 18 febbraio – la sua magica notte degli Oscar: con The World Restaurant Awards sono fioccati tanti premi, uno per ognuna delle diciotto categorie previste. La cerimonia si è svolta a Parigi a Palais Brogniart con uno straordinario evento organizzato da IMG, ideatore del premio assieme al nostro Andrea Petrini (Presidente della Giuria), già da solo una garanzia di successo e a Joe Warwick (Direttore Creativo). Come negli Academy Award non è mancata la suspance: le candidature erano state annunciate a dicembre con una longlistcon i nomi di tutti i votati seguita da una shortlist, rivelata solo a gennaio, con i cinque candidati più votati per categoria e quindi in gara per la vittoria.
Parigi
The World Restaurant Awards si differenziano inequivocabilmente dai The World 50 Best Restaurants che classificano i miglior 50 ristoranti nel mondo senza tuttavia distinguere tra i differenti stili di ristorazione che si sono andati prepotentemente affermando soprattutto negli ultimi anni. Sono trasparenti nei meccanismi di scelta, i nomi dei giurati sono per esempio sono tutti dichiarati sul sito correlati di biografia, all’avanguardia dal punto di vista dell’inclusione (non ultima quella di genere visto che il 50 per cento dei votanti esperti del settore di 37 diverse nazionalità è tutto al femminile). E mirano a valorizzare le diversità dell’eccellenza gastronomica internazionale con una proposta di Big e Small Plates (le categorie) da sola definisce la filosofia tutt’altro che sussiegosa, un po’ scanzonata (ma seria!) e decisamente contemporanea dei riconoscimenti: da quella dello chef senza tatuaggi a quella dell’Atmosfera dell’anno, a quella di House Special (i ristoranti definiti da un particolare piatto) a quella di Prenotazione non richiesta alla Off Map Destination con locations nei posti più sperduti del mondo fino all’Instagram account dell’anno.
Standing ovations e festeggiamenti hanno (ovviamente) accompagnato la nottata che ha visto riunirsi sotto lo stesso tetto tutte le greatest minds della gastronomia internazionale. Per avere un’idea di quanto è successo non resta che dare un’occhiata alla nostra pagina Instagram o a quelle degli altri partecipanti. Le categorie da premiare, come si è detto, erano diciotto. Ecco quindi i vincitori, i primi Top of The World Restaurant Awards, the most exceptional eateries del pianeta, fine and fun dining e i personaggi gastronomici da non seguire. Ve li presentiamo uno a uno corredati di fotografia e citazione. Tante vengono infatti dal nostro archivio in quanto molti chef sono stati raccontati sulle nostre pagine. E ne andiamo ben fieri!
“Al Mocotó mangi la classica cucina nordestina, ovvero quella dello stato del Pernambuco, una cucina popolare che ispira fratellanza e umanità a fa sentir bene le persone. Un posto inclusivo dove va ogni genere di persona. Non c’è prenotazione e non ci sono preferenze. Si aspetta nella piazzetta e nell’attesa si beve una caipirinha alla frutta tropicale con tapas e snack”.
Da Suburbio Mocotó di Tommaso Protti su Cook_inc. 21
Rodrigo Oliveira, foto di Tommaso Protti
Forward Drinking: Mugaritz, San Sebastian – Spagna, chef Luis Andoni Aduritz
Il pioneristico ristorante basco nei 21 anni della sua esistenza è stato, a vario titolo, “il fenomeno gastronomico più importante del mondo negli ultimi tempi”, “il ristorante più avventuroso del mondo”, “il più sperimentale” e “nothing short of inspired“. Il merito di questo non è solo del fondatore del ristorante, Andoni Luis Aduriz, ma dell’intero team di Mugaritz in continua ricerca ed evoluzione. Per il 20 ° anniversario del ristorante nel 2018 il ristorante ha perseguito la sua ossessione per ciò che definisce le “armonie emozionali” tra cibo e vino. Andando oltre gli abbinamenti tradizionali per far in modo che “solido e liquido si unifichino in un singolo elemento”.
Original thinking:Le Clarence, Parigi – Francia, chef Christophe Pelé
“Alla faccia di tutte le tendenze , preferisce seguire il suo fiuto. E che in un epoca in cui la caccia gioca principalmente sul mito della mascolinità, sui sapori forti e testosteronizzati, lui preferisce cercare semmai la freschezza, il fruttato della carne per niente frollata… È quello che si cerca al Clarence. L’intuizione e la riflessione. La semplicità del detto comune e la svisata dell’interdetto, il contrasto dello strappo, la tela lacerata, squarcio su un retroscena dove non è più solo questione di cucina. Ma di storie, di vite, di moralità leggendarie, di autobiografie in process, di autofiction volatile secondo le inflessioni e gli umori del giorno”.
Da I
sotterranei del Vaticano di Andrea Petrini su Cook_inc. 22
Christophe Pelé, foto di Philippe Vaurès Santamaria
Ci sono innumerevoli esempi di strette collaborazioni tra chef e produttori, ma quella tra Cotter e Walsh è caratterizzata dalla sua longevità (ben 18 anni) e sinergia (una collaborazione di amicizia e creatività).
Enduring Classic:La Mère Brazier, Lione – Francia, chef Matthieu Viannay
“Un ristorante dove il cuoco si mette a nudo
da solo per economizzare il divanetto dello psicanalista. Un posto storico dove
il padron di casa non dissimula mai, ma si esprime con la stessa verace
intensità nelle sue ultime creazioni che nei best of, svisati e corretti, della
tradizionale casata. Quel saper
declinare, senza mai strafare, nella sua casa madre, nell’adiacente e tanto
sciccoso wine bar o nella Rue Royale by Mathieu Viannay da pochissimo
trasportata a Dubai, le varie sfaccettature d’una giovanile personalità che fa
dell’iconica Sfinge Brazier/Viannay la chiave di volta congiunta e del suo
plateale successo patinato quanto basta di mistero. Più bella ricetta
esistenziale è difficile trovarla”.
Da Le Père
Brazier di Andrea Petrini su Cook_inc. 21
Massimo Bottura e sua moglie, Lara Gilmore, hanno avviato il progetto no profit Food for Soul nel 2016 per affrontare “due facce dello stesso problema”, ovvero lo spreco alimentare e l’insicurezza alimentare. Circa 450.000 piatti dopo e Food for Soul si è espanso da Milano a Londra, Parigi, San Francisco e New York, con l’intenzione di aprire in Messico, Asia e Africa.
Off Map Destination: Wolfgat, Paternoster – Sud Africa, chef Kobus van der Merwe
Nella piccola e incantata Paternoster, villaggio incantevole di pescatori sulla costa a ovest sudafricana, a due ore di auto da Cape Town. Il ristorante Wolfgat si trova sulla spiaggia, in un cottage storico con una ventina di posti a sedere. Serve Hyper-local, considered, heritage, slow, seasonal Strandveld foodin acontemporary and stilish way ed è considerato un pioniere della rinascita della filosofia culinaria del Strandveld, la vegetazione costiera.
House Special: Lido 84 / Cacio e Pepe in vescica, chef Riccardo Camanini
Ad aggiudicarsi il premio è il signature dish di Riccardo Camanini e del suo Lido 84, la Cacio e Pepe cotta “alla cieca” (con maniacale precisione) in vescica di maiale. Dal sapore unico e scenografica: viene servita infatti davanti al commensale tagliando la vescica con un coltello ben affilato, con gli aromi inebrianti che avvolgono la sala a ogni apertura.
Da Riccardo Camanini @ Lido 84 ha raccontato Andrea Petrini su Cook_inc. 10.
Riccardo Camanini, a destra e suo fratello Giancarlo, foto di Bob Noto
Atmosphere:Vespertine, Los Angeles – Stati Uniti, chef Jordan Kahn
“More spaceship than restaurant, it’s like a hallucinogen sci – fi dream brought to life”, hanno commentato sui social dei The World Restaurant Awards.
New Arrival:INUA, Tokyo – Giappone, chef Thomas Frebel
“Uno dei pochi a sondare l’immaginario nippone esprimendolo in fase col mondialismo del nostro millennio – e la cucina di tempo in tempo recisa, controllata, raziocinante ma sempre non meno illuminante d’una elegiaca rivelazione colta in una sequenza di Andrei Tarkovski”.
“Avery simple idea”: il ristorante ospita chef rifugiati per un evento. Quest’idea è diventata evento nel 2016 con il primo Refugee Food Festival a Parigi. Ha unito 11 ristoranti, 8 chef e 1000 ospiti.
Ristorante dell’anno: Scelto tra i vincitori delle 12 categorie di Big Plates, il primo Ristorante dell’Anno dei World Restaurant Awards è Wolfgat, il piccolo e remoto paradiso della purezza e del buon gusto in Sud Africa vincitore della categoria Off Map Destination.
Chef Kobus van der Merwe, foto da The World Restaurant Awards FB
SMALL PLATES
Trolley of the Year : il meraviglioso carrello dei dolci di Ballymaloe House, Cork – Irlanda
Al Ballymaloe House di Cork, il sweet trolley non è mai passato di moda. Nell’ultimo decennio i contenuti del carrello sono stati supervisionati dal capo pasticcere JR Ryall: gelati e granite fatti in casa, una crostata di qualche tipo onnipresente, qualunque frutto sia di stagione, panna cotta, crème brûlée, i biscotti shortbread a forma di cuore e molto molto altro. Qui “Would you like to see the sweet trolley?” è sempre una domanda retorica.
Quando si tratta di usare Instagram per migliorare il profilo del ristorante, non sono solo i giovani a eccellere. Alain Passard, chef dell’ Arpège a Parigi, ha mostrato un gran talento per questo social media e ha guadagnato un nutrito pubblico completamente nuovo. Ha preso uno smartphone in mano per la prima volta nel marzo 2015 e ora intrattiene i suoi seguaci con foto di prodotti, un sacco di frutta e verdura naturalmente e piatti sbalorditivi regolarmente intervallati da ritratti di sè stesso like a rockstar. Da non sottovalutare anche la sua ossessione per il pollo, instagrammato “in ogni salsa”.
Alain Passard, foto di Richard Haughton da Cook_inc. 13
Long-Form Journalism : Lisa Abend –Il long read article da leggere almeno una volta nella vita è Food Circus, pubblicato su Fool Magazine lo scorso anno.
Da Bo e Dylan, la coppia thailandese / yankee proprietaria del ristorante Bo.Lan a Bangkok è tutto fatto con le loro mani, al 100%. Mancare la precisione scientifica della a pinzetta, fredda, ma si ottiene invece tutto il calore della vita, la sempre diversa, imperfetta e percepita bellezza e bontà di ogni singolo piatto.
E il vincitore è … lo chef che va davvero per la sua strada – che fa tendenza. Old School potrebber chiamarlo – erroneamente. Perché non è necessario seguire la via del ‘body art’, coprirsi da naso a capo di geroglifici ultraterreni, per trasudare quella qualità così importante in uno chef all’avanguardia: individualità. Alain Ducasse è un vero individuo. Allora perché dovremmo aspettarci che lui sprechi tempo e denaro (non ce n’è mai abbastanza per lui) su un tatuaggio, come quasi ogni altro chef alla moda del mondo?
Alain Ducasse, foto di Benjamin Schmuck da Cook_inc. 13
https://i1.wp.com/cookinc.it/wp-content/uploads/2019/02/Schermata-2019-02-19-alle-09.34.48.png?fit=797%2C602&ssl=1602797Gretahttps://cookinc.it/wp-content/uploads/2019/01/logo2x.pngGreta2019-02-19 09:43:282019-02-20 14:21:59THE WORLD RESTAURANT AWARDS 2019 – I VINCITORI
The long and complex menu doesn’t bode
well. For starters, it’s late in the winter evening and took me over three
hours to get here for dinner, plus I’m tired and can hear the repetitive tip-tap-tip-tap-tip-tapping
of child’s feet running around me as a four-year-old slides across the polished
restaurant floor – way past his bedtime. It’s a cosy Italian ristorante though, and I’m a greedy Brit
in Tuscany, so shuffle my lardy arse comfortably into the chair and look
forward to plate after plate of crostini and a gargantuan Lampredotto sandwich.
Gianluca Gorini
Woah, but hang on, this is 14-courses, plus all of the surprise appetizers, amuse-bouches and added accompaniments. Gianluca Gorini’s menu is a litany of lavish ingredients, but even I, from time to time, am guilty of unwarranted snobbery. The restaurant da Gorini in San Piero in Bagno, on the Tuscan-Romagna Apennines, presents fabulous and inventive food in his own style – light rather than heavy, but still full of robust flavours. It wasn’t what I was expecting, but it was exactly what I wanted. The customary lineup of Italian ingredients are all evident – salsiccia, radicchio, Parmigiano cream, winter chestnuts – convincing me that I was in very safe hands, but these are paired alongside kooky catches that have no place appearing on such a menu in inland Toscana. Creations are both classic and contemporary, a difficult balance to pull off successfully in a time when outlandish chefs are all wanting to wow the diner.
Amuse-bouches photo by David J Constable
As the winter daylight falls, I find myself tucked away in the corner of the restaurant, seated among friends, the family of Gorini – including his wife, Sara Silvani, and boisterous son – emerge from the kitchen with plate after plate of striking creations. First, a few light and delicately designed dishes such as Fallow deer tartare with a citrus sting of bergamot, chestnut honey and robust grated coffee, followed by “Mandorlato” of cod with rosemary. Then, a plate of Roasted artichoke with artichoke sauce, capers and a sprinkling of dried matcha tea – “an absolute masterpiece, probably the most interesting of the year”, as proclaimed by Identità Golose in their 2019 guide. For me, it was the only duff note of dinner, a tandem clash of artichoke spiked with piquant capers as salty as a marathon runner’s jockstrap and the lingering vegetal taste of powdered matcha difficult to shift.
Tagliolini al burro di genziana, pecorino e scorza di bergamotto candito photo by Sofie Dalauw from Cook_inc. 22
It’s when the pasta courses arrive that things kick into gear and Gorini’s talents flourish. Robust tubes of Rigatoni come with a smoked Parmigiano cream, mace, coconut and shards of dried sausage. It’s a bowl of food that demands to be mopped up and a show in smart innovation, with the mace offering a tinge of citrus and cinnamon while the addition of shaved coconut adds a Southeast Asian twist to proceedings, melting nicely with the cream for a release of milky gamma-octalactone. A light-textured trio of Ravioli stuffed with shallots, salted goats’ cheese and withered chicory was a design of such simplicity, such straightforward craftsmanship of envelope-thin pasta, that it was one of the evening’s most outstanding courses. Meat courses follow in the form of Local roe deer with orange cauliflower and carnation, then Grilled pigeon with aromatic bay extract, and a skewer of pigeon offal – the delicious organ pop of a little heart and lung. The ripeness of the deer and the acidity of the orange dance happily. What’s striking is the way the meat has been adequately rested before reaching us. As a result, the deer has softened up, and I clear my plate immediately.
Semifreddo al raviggiolo, amarene sciroppate, croccante alle noci e vermut photo by Sophie Delauw from Cook_inc. 22
Everything
is sophisticated and delicate, wild when needed but never steering away from
Gorini’s roots. It’s his roots, heritage and family that are so important to
the framework of da Gorini; the household
atmosphere of the restaurant creating a warm and open environment –
deliberately family-friendly – and a continuation of the hospitality Gianluca
encountered after growing up in a family of restaurateurs. From the go, it’s
clear how important food and family are to Gianluca, and how he uses these as
fuel to thrust himself forward. Gianluca
has managed to create a happy equilibrium between family and business, running
the restaurant with his wife and receiving a helping hand in front of house
from his son. A special mention also to sous-chef, Filippo Tura, and
cognoscente wine recommendations by Mauro Antonio Donatiello – many organic
and biodynamic from the region. In all, it’s a masterful balance, a
whiz-bang in culinary creativity that, as is always the way with Italians,
comes back around to family. I’d go back weekly if I could, for all
14-courses… and some more.
A detail from one of the dining rooms photo by Sofie Dalauw from Cook_inc. 22
https://i1.wp.com/cookinc.it/wp-content/uploads/2019/02/844A7775.jpg?fit=799%2C600&ssl=1600799Gretahttps://cookinc.it/wp-content/uploads/2019/01/logo2x.pngGreta2019-02-15 17:19:402019-12-03 12:55:07GIANLUCA GORINI FINDS THE PERFECT BALANCE IN SAN PIERO IN BAGNO
Un porridge alla panna molto acida, cuore di renna affumicato e burro nocciola all’aceto di prugna
Ricetta di Redazione Cook_inc.
Foto di Lars Petter Pettersen
Esben Holmboe Bang è il “giovane e gaudente ragazzone” del ristorante tristellato Maaemo a Oslo che Andrea Petrini ha raccontato su Cook_inc. 18 (Cibo e Musica) nell’articolo Melodic Electro dal titolo Esben is Stranger than Esben. “E ci sono i due capolavori assoluti, metafore vesperali del più lunare Dark Side di Esben, totalmente in fase “Ruth” con le amare note della Casseruola di Scampi del nord norvegese alle alghe tartufo (“delle alghe parassiti che crescono nutrendosi di altre alghe”). Tema notturno che Esben porta al suo massimo compimento ingegnandosi in consistenze e sapori – esattamente come nel disco di Robert Wyatt, lo stregone dell’elettronica Brian Eno s’inventava strumenti inesistenti (2) – nell’incredibile Rømmergrot, onirico porridge di crema acida e cuore di renna essiccato e grattugiato dall’animale(sco) effetto amplificato dal binomio burro salato/aceto di prugne per spingere l’acidità ai massimi livelli. “È un piatto frontiera, o lo ami o lo detesti, non permette mezze misure” fa Esben. Altro che wine pairing: lo accoppiasse alla filodiffusione del brano The Vile Stuff di Richard Dawson (Nothing Important, Weird Records 2014), pure lui sciamano, ma del nuovo sperimentale folk britannico, sarebbe davvero l’accordo straperfetto”.
Ecco la ricetta del Rømmergrot di Esben da abbinare a questa playlist, suggerita da Andrea Petrini.
per 10 persone
Per
il rømmegrot
520 g di rømme
(panna acida)
600 g di latte
40 g di farina
40 g di farina di grano tenero
sale q.b.
aceto di vino bianco q.b.
Mettere la rømme in una pentola, portare a fuoco basso finché non sta per bollire, aggiungere poco a poco la farina mescolando costantemente fino a ottenere un roux. Eliminare il grasso via via che si separa. Continuare a cuocere il roux, schiacciando per cercare di eliminare quanto più grasso possibile. Una volta cotto ed eliminato tutto il grasso possibile, aggiungere il latte a filo, come per una béchamel. Una volta incorporato tutto il latte, allontanare dal fuoco e aggiungere il sale e l’aceto.
Per il cuore di renna affumicato ed essiccato
18 cuori di renna
8 l d’acqua
400 g di sale
Portare a lieve bollore 1 l d’acqua e sciogliervi il sale e aggiungere il resto dell’acqua fredda per raffreddare. Ricoprire i cuori con la salamoia e lasciare a bagno per 12 ore. Togliere dalla salamoia e sciacquare con cura. Tamponare con un panno e lasciare asciugare ancora 1 ora in frigorifero, scoperti. Affumicare con il fieno per 3 volte. Disporre su una teglia su cui sarà stato messo un tappetino antiaderente. Disidratare a 60°C per 36-48 ore, in base alle dimensioni. Una volta raffreddato il tutto, grattugiare e passare al setaccio.
Per il burro nocciola all’aceto di prugne
500 g di burro nocciola caldo
100 g di aceto di prugne
Aggiungere al burro nocciola caldo l’aceto di prugne, in quantità sufficiente da sentirne l’acidità.
Per completare il piatto
2 cuori per ogni porzione
Riempire il fondo di una scodella con il rømmegrot. Coprire con uno strato spesso e omogeneo di cuore di renna grattugiato. Al centro, versare un cucchiaio di burro all’aceto.
Dove c’è scuola c’è scambio di idee. Da un’aula esci sempre avendo imparato qualcosa, vale non solo per gli studenti, ma per gli stessi attori della formazione. Il che aiuta a mettere a terra progetti concreti. Si fonda anche su tale presupposto la Giunti Academy School of Management, il nuovo progetto formativo con percorsi trasversali tra cibo, vino, turismo, beni culturali, economia, innovazione e trasformazione digitale. Si rivolge a neolaureati, ma anche a manager e professionisti in cerca di un aggiornamento professionale con corsi full e part time e stage in azienda della durata di sei mesi. Il progetto nasce in seno a Giunti Editore, azienda leader nel settore dell’editoria enogastronomica che intende così mettere a frutto nella didattica il suo vasto patrimonio editoriale. Quattro i corsi previsti tra febbraio e novembre 2019: Restaurant Innovation and Management (part time dal 25 febbraio a Firenze); Wine management (part time dal 10 maggio a Roma); Management in food and wine (full time 20 maggio a Roma); Beer Business Management (part time 8 novembre).
Marco Bolasco presenta la Giunti Academy
A illustrare il progetto, presentato a Roma all’Osteria di Birra del Borgo, è stato Marco Bolasco, direttore dell’area enogastronomica di Giunti Editore che ha tenuto a precisare come non si tratti di una scuola di cucina o di sommellerie, ma di un’offerta formativa innovativa e trasversale che darà la possibilità di creare progetti su misura per le aziende oltre a fornire una visione di dove sta andando il settore di riferimento. “In un momento di sovraesposizione mediatica riguardo a tutto ciò che ruota intorno all’enogastronomia, sentiamo tutti il bisogno di un maggiore approfondimento. Sarà una opportunità e una risorsa per la stessa casa editrice che attraverso la formazione acquisirà gli stimoli per nuovi contenuti”. I corsi si avvalgono della partnership di numerose aziende leader del mercato e dei più autorevoli e competenti esperti e professionisti del settore i quali, come ha sottolineato Rossella Calabrese, direttore di Giunti Academy “sapranno raccontare la concretezza di una professione. Lavorare direttamente con le aziende apre alla possibilità di creare per esse nuovi progetti. Una delle chiavi della formazione saranno proprio quelle competenze economiche che non si possono improvvisare e che sono fondamentali per la sostenibilità di qualsiasi iniziativa imprenditoriale”.
Osteria Birra del Borgo
Competenze destinate a
tradursi in una “cassetta degli attrezzi” da poter utilizzare subito nella
propria professione. “Programmi, contenuti e moduli formativi vengono di solito
considerati buoni per sempre. È invece fondamentale ripensarli
costantemente data la rapidità dei
mutamenti”, ha aggiunto uno dei formatori, Federico De Cesare Viola, direttore
editoriale della neonata Food & Wine Italia, versione tutta italiana del più
famoso magazine di enogastronomia al mondo. De Cesare ha rilevato come uno degli
aspetti nevralgici del post master sia il momento del placement: “alla fine dei corsi si crea sempre un certo imbarazzo
tra scuola e aziende. Bisogna invece far capire come uno studente sia una
risorsa e per questo serve una comunicazione costante per creare percorsi su
misura e figure professionali che vadano a riempire quei ruoli di cui le aziende hanno bisogno”.
Un esempio di questa concretezza, di come cioè possa funzionare l’interazione tra scuola e mondo del lavoro, viene proprio dall’Accademia Niko Romito, lo chef tre stelle Michelin di Reale Casadonna (partnership dell’iniziativa) la cui scuola ha sede a Castel di Sangro in Abruzzo. “La nostra – ha detto Niko – è la prima scuola diventata impresa avendo investito sugli allievi, scommettendoci e mettendoci la faccia. A provarlo le innumerevoli iniziative nate sul territorio (in Abruzzo hanno aperto ben 13 attività fondate da ex studenti) che si sono sviluppate anche grazie a un’attenta indagine di mercato. “In questo momento – è il messaggio di Niko ai giovani – manca una cucina di mezzo, inclusiva, con prezzi democratici che abbia dietro un metodo, un progetto. Spesso si pensa che il centro delle grandi città sia il posto giusto per aprire nuovi locali, ma non è così. Può offrire più opportunità un posto ben scelto nella periferia”.
Anche nel settore vino si
persegue una strada innovativa, illustrata, con il solito acume, da Fabio
Rizzari, uno dei personaggi di maggior spicco del mondo del vino cui si
affiancheranno nei corsi altri nomi di calibro come Armando Castagno, Giampaolo
Gravina, Ernesto Gentili, Paolo Zaccaria,
Alessandro Masnaghetti. “Nella generale contrazione dell’editoria enogastronomica, il settore
vino tiene e anzi cresce, segno di un
bisogno di conoscenza non ancora soddisfatto”, rileva Bolasco seguito dalle
considerazioni di Rizzari: “Sul vino c’è oggi un’offerta formativa o più
semplicemente formativa elefantiaca, ma non sempre di alto livello. Sono
centinaia i corsi di degustazione organizzati da nord a sud ma sin qui, escluse
due o tre strutture, il vino viene visto per lo più come oggetto da scomporre,
analizzare secondo i canoni della cosiddetta degustazione tecnica. Noi abbiamo un’ambizione
in più, quella di studiare gli aspetti più complessi dell’interpretazione del
vino come centro di un fitto reticolo di rimandi multidisciplinari accedendo a
un livello di consapevolezza maggiore”.
https://i1.wp.com/cookinc.it/wp-content/uploads/2019/02/IMG_0369.jpg?fit=795%2C594&ssl=1594795Gretahttps://cookinc.it/wp-content/uploads/2019/01/logo2x.pngGreta2019-02-10 15:00:302019-02-11 10:20:52GIUNTI ACADEMY
Photos by David J Constable – Cover photo by Francesco Tommasi (from Cook_inc. 20)
Occupying a space on one of Lucca’s famous cobblestone palazzos (Piazza del Giglio), Ristorante Giglio carries a list of stylish Italian aperitivi — vermouth, prosecco, Campari, Aperol — but it’s their impressive list of over 600 “ethical” organic and biodynamic wines and beers that have made them celebrated amongst the local, youthful beatniks.
A rustic institution, much loved by its regulars, Ristorante
Giglio gained a new cult following last year when Benedetto Rullo left the smog
and graffiti of the capital for Lucca, joining friends Lorenzo Stefanini and
Stefano Terigi. Two became three, and a new kitchen trio was born.
A detail from the dining room ceiling
The restaurant already had a history of kitchen collaborations and generational torch-passing, having opened in 1979 under Franco Barbieri, Giuliano Pacini and Loredano Orsi, the reigns were handed to Paola Barbieri in 2000, before her son, Lorenzo, got in. The injection of youthful creativity presented a new contemporary dimension for the restaurant. Menus evolved, moving effortlessly from the rural traditions of Lucca and Mantua to a more diverse gastronomic identity in which foreign influences — particularly Asian — are present, without abdicating the Tuscan region.
Pinzimonio: raw vegetables with goat’s curd
In a time when international Italian food appears mostly in a
bastardised, commercial form, three young chefs have put their travels and
experiences to use, taking only minor poetic leanings and drawing on their
Italian heritage to create new plates of fresh eating with the nonsense,
pretension and snobbery left out. To oppose the age-old proverb, too many cooks
do not spoil the broth, in fact, they improve and define it.
Without pontificating all of the guff of organic and biodynamic
wines, the three friends are more understated, recommending, in a subtle nudge-nudge-wink-wink
persuasion, their suggestions to diners. The food meanwhile is all that is good
and true of nonna’s kitchen table. No dish has the dull, monotonous colouring
of creamy pasta or dank garlic bread; this is all vibrant stuff, carefully
assembled after months of research, discussions and recipe testing. Plates slap
you with their freshness and psychedelic colouring, willing you to pull out
your phone and photograph.
Tortellini with cream and soy sauce
Pairings that on paper look disastrous are in fact majestic creations that dance on the tongue, creating an accomplished and surprising menu laced with achievements. Take, for example, animelle (veal sweetbreads) with pumpkin and the citrus-sting of grapefruit; and Smoked hare with red cabbage, tempered in a light pine-nut milk and rabbit innards pie. Chicken liver with eel and pomegranate is a marriage as unlikely as Donald Trump and Angelina Jolie, but it works perfectly. Raw cuttlefish and citrus dashi have its roots in Japanese cuisine, while Tortellini with cream and soy sauce packs a punch. Thai spicing is used to marinade a locally-sourced Shoulder of baby lamb that, if the world was to end tomorrow, would very likely be my last chosen meal. A final mouthful of succulent, fatty, full-on-flavour, euphemistic mutton before a fireball of fury explodes the Earth.
A special mention for the bread. This is some of the
best-unleavened bread I have ever eaten, bread that deserves a bombastic
paragraph of celebration all to itself. By sticking to their principle of
threes, three grains — rye, spelt and an ancient variety of wheat called Gentil
Rosso — are blended and allowed to rise slowly, increasing in size as if
blowing hot air into a balloon. I guiltily stuff my face, pulling away
fist-fulls of warm dough and dipping it into puddles of golden olive oil,
soaking up the local liquid like thirsty sponges.
Last year’s Michelin star was a reward in persistent refinement
for Ristorante Giglio as they continue to strive and evolve. Even though the
chefs have their own lives and families, they remain united as a creative
culinary trio, each dedicated in their duty to bring their bespoke piece of
genius to the table, just enough so that each part of the puzzle creates a
whole.
The bread – photo by Francesco Tommasi (from Cook_inc. 20)
Seconda Stella a destra – Il cammino verso l’Isola
dei sogni di Moreno Cedroni e Mariella Organi
Testo di Lorenzo Sandano
Foto di Alberto Blasetti
“Le stelle, per quanto meravigliose, non possono in alcun modo immischiarsi nelle faccende umane, ma devono limitarsi a guardare in eterno. È una punizione che si è abbattuta su di loro così tanto tempo fa che nessuna stella ne ricorda il motivo. E così quelle più anziane sono diventate cieche e taciturne, ma quelle più giovani si meravigliano ancora di tutto”
Peter Pan – James Matthew Barrie
Riprendiamo l’immagine da cartolina di Senigallia, così come l’avevamo lasciata qui. Avvolta dal magico clima invernale, pullulante di rampanti insegne ristorative. E in ambito di magia, non possiamo non citare un baluardo di questi lidi sabbiosi come la Madonnina del Pescatore di Moreno Cedroni e Mariella Organi. Non la farò lunga, ma è innegabile quanto i protagonisti di questo ristorante trasmettano palpitazioni fiabesche a ogni visita. Gli occhioni blu adriatici, acuti e teneri simultaneamente, fanno da sincera preview all’animo di un grande cuoco dall’inesauribile verve fanciullesca come Moreno. Quasi a incarnare una trasposizione culinaria del bimbo sperduto di J.M. Barrie. Non nell’idea caricaturale del ragazzino in calzamaglia che non vuole saperne di crescere. Al contrario, il percorso intrapreso da Cedroni delinea un traguardo umano invidiabile: l’avanzamento costante e consapevole verso una maturità espressiva. Senza mai tradire lo spirito luminoso di quel bambino interiore che troppo spesso (ahimè) tendiamo a dimenticare.
Moreno Cedroni e Mariella Organi
In ogni sua scelta, intuizione o sussulto vitale, rintracciamo un mix zelante di creatività ricreativa. Capace di agguantare la concretezza in forma insolitamente leggiadra, fresca, goliardica. Con un suo accento ironico che solletica angoli remoti della memoria infantile. Uno dei primi in Italia – della sua generazione – a sdoganare con efficacia il profilo di cuoco imprenditore. Tramite mezzi altamente innovativi per tempi e contesti fine dining: conserve ittiche in scatola, susci all’italiana, panini gourmet e affettati di pesce, solo per citarne alcuni. La serie vincente di format pop, inaugurati con metro capillare nel terroir marchigiano (ne parleremo più in là). Così, statuario e lucente, riecheggia in oltre 30 anni di storia il bagliore identitario delle stelle della Madonnina. Quasi a disegnare un parallelismo metafisico con la statua protettrice di marinai e pescatori, che scruta l’Adriatico appena fuori il ristorante
La sala
Nella luminosissima sala –
con pareti a vetro che proiettano gli ambienti in mare aperto – troviamo il
sorriso radioso e l’eleganza professionale di Mariella (moglie dello chef) a
comporre l’anima complementare del ristorante. Razionale e meticolosa, ma integrata
al mondo onirico di Moreno come Wendy per Peter Pan. In questa istantanea di
floride energie, la cucina narra con estro e solidità “l’Isola che non c’è” di
Cedroni. O meglio, un’oasi espressiva che esiste e resiste: coniugando ricerca,
sensibilità, entusiasmo spericolato e una componente ludica che traghetta la
fantasia su sponde leggiadre e sognanti. Un viaggio colorato, che intreccia
brillantemente visioni contaminate (tanto Oriente, ma non solo), tributi
tradizionali al territorio e soprattutto personalità ineguagliabile. Nobilitando
il divertimento, con rinnovata centralità del gusto.
Ostrica alla griglia “mangia e bevi”
Pensiamo al ricordo
evocativo del trascorso in Vietnam, che si manifesta in un’elettrizzante Ostrica alla griglia“mangia e bevi” con cipolla,
salsa verde e sinuoso allungo piccante. Esplosiva. La soffice Brioche (dalla texture di un takoyaki giapponese) che con battuto di
levistico e acciuga spalleggia in ritmo esaltante un margarita ghiacciato. Street-comfort
e levità a braccetto. Maestoso il Moro
oceanico, salsa di mandorle al curry, misticanza e dragoncello: le falde
croccanti e sode del pesce, dai rimandi lattosi, sugellano uno scambio di
contrasti superlativi con gli acuti verdi e aromatici del condimento. In
andatura nipponica, mirabile per idea e gesto tecnico il Ramen tiepido di spaghetti, pancetta di ricciola affumicata, friggitelli,
ananas, uovo marinato e brodo all’anice stellato. Ottovolante di sfumature
orientali, tradotte limpidamente in scala di sapori italiani.
Ramen
Il menu decolla in sostanza con la Testa di ricciola, carote, zenzero e basilico. Quello che in origine poteva essere uno scarto, consumato nello staff lunch, trova nuova vita esibendo opulenza primordiale dal valore assoluto. Se non “succhi” gli occhi, godi solo a metà. Ancora tracce cosmopolite, coordinate al millimetro, verso lo sprint finale: prima nella succulenta Anguilla di mare alla brace, alloro, rapa rossa e cavolo viola fermentato (trovatemi altri in Italia che sanno cuocere l’anguilla così). Poi nello strepitoso Piccione, melanzane affumicate e salsa masala. Il dry aging di 28 giorni sulla carne del volatile dona profondità e morso mirabolanti. Ma è la propulsione di profumi speziati e nuances fumées a rendere memorabile ogni boccone. Senza scordare il filetto crudo abbinato all’acciuga cantabrica, e il delizioso cuoricino caramellato con miele e soia. Chapeau!
Testa di ricciola, carote, zenzero e basilico.
Il Fico nero ghiacciato con gelato al gorgonzola e acqua di foglie di
fico è un passaggio geniale per rinvigorire i sensi. In vista del Millefoglie di acero, gianduia, cardamomo e
cannella, che conquista il palato riassumendo gola e finezza. L’esodo
rimane in atmosfera fiabesca: dalle avventure di Peter, voliamo nel Paese delle
Meraviglie di Alice. Con una scenografica piccola pasticceria che risveglia gioiosamente
il lato fanciullo dell’assaggiatore. Come d’altronde non smette di viverlo e interpretarlo
– con dialettica inimitabile – questo prezioso chef dal carattere forever young.
https://i2.wp.com/cookinc.it/wp-content/uploads/2019/02/Alberto-Blasetti-Ph.-7245.jpg?fit=804%2C598&ssl=1598804Gretahttps://cookinc.it/wp-content/uploads/2019/01/logo2x.pngGreta2019-02-05 16:33:512019-02-06 16:12:47SENIGALLIA DREAMIN’ (PT.2): MADONNINA DEL PESCATORE, TRA FIABA E MATURITÀ RINNOVATA
Cinquant’anni fa non
esisteva neppure con il nome di Amarone. Nel 1968 si chiamava Recioto della
Valpolicella Amarone. Allora non si sarebbe mai immaginato il successo mondiale
di questo vino, che, riassunto in qualche freddo numero, dà la dimensione del
fenomeno. Attualmente gli ettari sono circa ottomila, il giro d’affari di circa
trecentotrenta milioni di euro, costruito da una filiera produttiva composta di
piccole, medie e grandi aziende, un super-prezzo delle uve, con la produzione
di un singolo ettaro capace di toccare a valore 24.000 euro, un brand sempre
più amato nel mondo, e una vallata ancora più verde per una nuova generazione
di giovani che ha preso il testimone dell’economia dell’Amarone nei 19 comuni
della Valpolicella (329 aziende sulle 1.736 consorziate).
Uve autoctone della Valpolicella in appassimento
La Cinquantunesima anteprima del principe dei vini veronesi, organizzata dal Consorzio Tutela Vini Valpolicella, con la presentazione dell’annata 2015, è stata un successo che ha richiamato tremila persone. D’altronde l’Amarone è oggi considerato a ragione il più prestigioso vino rosso veronese e uno tra i primi in assoluto nel panorama vinicolo italiano e internazionale: le esportazioni ne sono una chiara conferma con un 65% di vendite all’estero. Sottolineiamo che l’Amarone della Valpolicella, anche con le versioni Classico e Valpantena, rappresenta nel panorama enologico mondiale uno dei rari esempi di vini rossi secchi generati da uva appassita (nella tecnica dell’appassimento i produttori veronesi sono esperti mondiali). Non solo: è ottenuto principalmente con uve autoctone della Valpolicella (Corvina, Corvinone, Rondinella).
Olga Bussinello e Andrea Sartori
Gli assaggi di molti dei sessantotto
vini (di cui più della metà erano campioni prelevati da botti) di
sessantacinque aziende dell’annata 2015, hanno dimostrato un cambio stilistico.
Si stanno ritrovando le tracce dell’Amarone di trent’anni e più fa, di quando era
espressione di finezza ed eleganza. Dopo è diventato un vino emblema della potenza
muscolare, dell’opulenza, del volume, della dolcezza (quasi marmellatosa). Certo,
qualche consumatore resterà spiazzato ad assaggiare alcuni Amarone più leggeri
e “sottili” (pur mantenendo struttura e piacevolezza), ma il cambio di passo va
nella direzione della modernità e della maggior bevibilità. L’annata promette
molto bene e sembra avere tutte le carte in regola per diventare la migliore
degli anni 2000.
Invecchiamento in bottiglia
E il suo abbinamento a tavola? L’Amarone continua a sposarsi in connubio perfetto con carni rosse alla brace, roast beef, brasati, tagliate di manzo o puledro, arrosti con sughi saporiti, ma anche con selvaggina sia da pelo sia da penna. Delizioso l’abbinamento anche con i formaggi a pasta dura e stagionati, come il Parmigiano Reggiano, e con la frutta secca, in particolare le noci. Può trovare armonia anche con dei primi piatti sapidi, per esempio conditi con tartufo, lepre e selvaggina. Tuttavia, la concentrazione straordinaria del sentore di fruttato di ciliegia e lampone e quello delicato di uva secca e spezie permettono all’Amarone abbinamenti originali. Lo sposalizio con i gusti “agrodolci” e con ricette provenienti da altre culture gastronomiche può avvenire con soddisfazione. Buona idea servirlo da solo prima del dolce: resta comunque uno dei pochi vini rossi italiani che non ha bisogno del cibo per essere apprezzato.
As chefs make a conscious effort to move away from the importing of luxury items, turning their attention towards the sourcing of more regional, “local” ingredients, it seems almost inescapable nowadays to find a restaurant that isn’t pushing, poking and promoting the local label. At a time when competitive chefs are striving for our attention, bombarding us with Instagram photos and popping up on our television screens, they continue to implement what they can for their fifteen minutes of fame. Others, however, in this time of overwhelming media deluge have chosen a different pathway; choosing instead to visit the exact source and revert to the student; open and accessible to new knowledge. More importantly, they appear to have given themselves over to education from those who know far more than they do.
Temuan chocolate with jaggery ice cream
In Malaysia, food has long had a
convoluted appearance, influenced by the country’s multiethnic cluster of
people whose pallets dance between the traditions and practices of the
indigenous Sabah and Sarawak people to the Peranakan and Eurasian creole
communities, as well as a significant number of foreign workers and
expatriates. In fact, what one would perhaps call “modern Malay” cuisine, can
be boiled down to a melange of traditions from its Malay, Chinese, Indian,
Indonesian and ethnic Bornean citizens, ineffable and impossible to categorise.
This has made Malaysian food challenging to define, which is precisely why Chef
Darren Teoh of Dewakan in Kuala Lumpur seeks to put endemic produce – or
ingredients which are either native or naturalised to the land – on the dining
table.
The dining room at Dewakan
The menu at Dewakan is a geographical
journey through the biodiverse layers of the Malaysian habitats, a culinary run
through of all that is good from the land, the sea, and the verdant jungles of
Peninsular and East Malaysia. As a country split into two regions – separated
by the South China Sea – it means an ultra-diverse ecosystem thrives, supported
by both land and sea. Peninsular Malaysia shares a common history with
Singapore, therefore, it is not uncommon to find the same version of dishes,
such as chicken rice and laksa; however, because of its proximity and
historical migrations with Indonesia, expect also to see the likes of rendang
and sambal. Where Darren comes in, is somewhere more panoptic, bringing
his experience from the kitchens of Les Amis in Singapore and his education in
haute cuisine-style cooking and presentation, to incorporate a catalogue of
ingredients from in and around his Malaysian home.
“The restaurant began with a simple idea,” Darren explains, “to use local ingredients. But then, just stopping with the ingredients revealed a missing piece of the vocabulary. We needed to apply local technique, as well, and, because I was trained in the European style, it occurred to me that I needed to step back and look at how I could use native produce to their full potential”. By visiting communities in all corners of the country, Darren and his team have re-energised many lost or forgotten ingredients, such as ulam raja microgreens, buah kampung, and chocolate made from foraged cocoa beans by the Temuan orang asli community, who are indigenous to western parts of Peninsular Malaysia.
Prawn umai with bunga kantan and ketumpang air
“It’s no longer a novelty to source these
types of ingredients, but necessary to support these communities and utilise
local produce”, says Darren. “If using these new ingredients means re-training
our palates, then so be it, a lot of cooking and being creative is about
challenging yourself.” Challenging indeed, not merely in the procurement of
such items – the research, field-trip visits and driving over an hour and a
half to collect ingredients – but when diners have certain expectations and
require convincing that these rare ingredients are worth paying for. “Sure,
that can be difficult, but my team and I are there to educate and transfer that
message of humanism”.
Darren continues, “The previous government
suppressed the lives of many people, especially those Malaysians in the
countryside and forests. They were robbed of their ancestral lands, forced to
live in poverty. We can’t talk about sourcing these products from such places for a fancy restaurant, without talking about
these people. Dewakan is a celebration of the people and everything that’s
great about our land”.
https://i1.wp.com/cookinc.it/wp-content/uploads/2019/02/Foto-3-Newsletter.jpg?fit=800%2C601&ssl=1601800Gretahttps://cookinc.it/wp-content/uploads/2019/01/logo2x.pngGreta2019-02-01 10:08:422019-12-03 12:56:00CHEF DARREN TEOH: IDENTIFYING LOCAL PRODUCE IN MODERN MALAY COOKING
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