La Gastrocrazia è il nuovo credo del cuoco Roberto Di Pinto, ed è una definizione che, come è facile intuire, unisce contenuti gastronomici a un’idea di democrazia a tavola. Anche se forse sarebbe meglio dire di equità, nel difficile equilibrio tra qualità e prezzo che vuole attirare l’attenzione di una clientela più giovane e, magari, poco incline a investire in esperienze gourmand di alto profilo. Invece il nuovo ristorante Sine, inaugurato a Milano, sembra proprio avviato su questa strada, con una bella carta di preparazioni sincere e originali e un menu di 5 piatti a 45 euro, oltre all’offerta under 25 che, in un giorno della settimana (il martedì), mette a disposizione un tavolo dove viene servito un menu a 35 euro. E c’è perfino il calice gastrocratico del giorno, proposto a 5 euro. A conti fatti sono prezzi più che concorrenziali visto il circuito dei ristoranti milanesi e ancor più considerata la qualità e la buona mano del cuoco.
Roberto Di Pinto e lo staff del Ristorante Sine
Che non è certo uno sprovveduto o un novellino alle prime armi. Il napoletano Roberto Di Pinto ha saputo ristrutturare una vecchia officina di moto trasformandola nella bella sala accogliente del Sine (a proposito, il nome del ristorante significa “Senza”), ma i suoi trascorsi lo hanno prima visto all’opera nella storica pasticceria Scaturchio a Napoli, dove, giovanissimo, era solo un garzone e dove ha appreso i segreti della pasticceria, in primis proprio quella partenopea. Poi sono arrivati i viaggi, a Londra da Fiore e da Conservatory e il rientro in Italia al Grand Hotel di Firenze. Non sono mancate la curiosità verso l’ondata molecolare esplosa a inizio secolo per raggiungere infine la stabilità degli ultimi anni a Milano, con la riscoperta di una spiccata vena partenopea e la frequentazione di grandi nomi all’Hotel Bulgari, dove ha occupato il ruolo di executive chef, ospitando ai fornelli cuochi del calibro di Dominique Crenn, David Thompson e Yannick Alleno per la rassegna Epicurea.
Passaggi intriganti e che hanno lasciato il segno qua e la nelle pieghe di un menu dove si strizza l’occhio a tanti stili e generi, anche se poi si ritorna quasi sempre all’ombra del Vesuvio. Certo, Milano non può mancare, con i Ravioli d’ossobuco che incontrano la gremolada mediterranea, ma qui si magnifica soprattutto la terra d’origine del cuoco, tra Friarielli in tempura, Conigli all’ischitana, Fusilloni al ragù di polipetti, peperone crusco e pistacchio e la Pizza fritta. Insomma, una concretezza di fondo con un brio decisamente moderno e che spinge ancor di più al momento dei dolci. Dove ritroviamo un classico di Di Pinto, il Sacro e Profano (babà al rhum e gelato al popcorn), ma anche le rinfrescanti 4 L di Lime, limone, lemoncello e lemongrass, o il più impegnativo Tiramisù con funghi e caffè. La carta dei vini è stata realizzata in modo da essere funzionale all’abbinamento al tavolo (c’è anche qualche buona birra artigianale), quindi senza troppi fronzoli e non particolarmente estesa, ma alcuni riferimenti in più forse non farebbero male. Può invece diventare un must il tavolo in cucina, che Roberto Di Pinto sta seriamente pensando di realizzare a breve. Visto il carattere vulcanico e verace del cuoco diventerebbe una cena sicuramente speciale.
Avete presente la notte degli Oscar con tanto di candidature e vincitori: miglior film, miglior miglior attore, miglior regista, miglior film straniero, miglior colonna sonora, ecc. ecc.? Bene, anche la ristorazione ha avuto ieri sera – il tanto atteso 18 febbraio – la sua magica notte degli Oscar: con The World Restaurant Awards sono fioccati tanti premi, uno per ognuna delle diciotto categorie previste. La cerimonia si è svolta a Parigi a Palais Brogniart con uno straordinario evento organizzato da IMG, ideatore del premio assieme al nostro Andrea Petrini (Presidente della Giuria), già da solo una garanzia di successo e a Joe Warwick (Direttore Creativo). Come negli Academy Award non è mancata la suspance: le candidature erano state annunciate a dicembre con una longlistcon i nomi di tutti i votati seguita da una shortlist, rivelata solo a gennaio, con i cinque candidati più votati per categoria e quindi in gara per la vittoria.
Parigi
The World Restaurant Awards si differenziano inequivocabilmente dai The World 50 Best Restaurants che classificano i miglior 50 ristoranti nel mondo senza tuttavia distinguere tra i differenti stili di ristorazione che si sono andati prepotentemente affermando soprattutto negli ultimi anni. Sono trasparenti nei meccanismi di scelta, i nomi dei giurati sono per esempio sono tutti dichiarati sul sito correlati di biografia, all’avanguardia dal punto di vista dell’inclusione (non ultima quella di genere visto che il 50 per cento dei votanti esperti del settore di 37 diverse nazionalità è tutto al femminile). E mirano a valorizzare le diversità dell’eccellenza gastronomica internazionale con una proposta di Big e Small Plates (le categorie) da sola definisce la filosofia tutt’altro che sussiegosa, un po’ scanzonata (ma seria!) e decisamente contemporanea dei riconoscimenti: da quella dello chef senza tatuaggi a quella dell’Atmosfera dell’anno, a quella di House Special (i ristoranti definiti da un particolare piatto) a quella di Prenotazione non richiesta alla Off Map Destination con locations nei posti più sperduti del mondo fino all’Instagram account dell’anno.
Standing ovations e festeggiamenti hanno (ovviamente) accompagnato la nottata che ha visto riunirsi sotto lo stesso tetto tutte le greatest minds della gastronomia internazionale. Per avere un’idea di quanto è successo non resta che dare un’occhiata alla nostra pagina Instagram o a quelle degli altri partecipanti. Le categorie da premiare, come si è detto, erano diciotto. Ecco quindi i vincitori, i primi Top of The World Restaurant Awards, the most exceptional eateries del pianeta, fine and fun dining e i personaggi gastronomici da non seguire. Ve li presentiamo uno a uno corredati di fotografia e citazione. Tante vengono infatti dal nostro archivio in quanto molti chef sono stati raccontati sulle nostre pagine. E ne andiamo ben fieri!
“Al Mocotó mangi la classica cucina nordestina, ovvero quella dello stato del Pernambuco, una cucina popolare che ispira fratellanza e umanità a fa sentir bene le persone. Un posto inclusivo dove va ogni genere di persona. Non c’è prenotazione e non ci sono preferenze. Si aspetta nella piazzetta e nell’attesa si beve una caipirinha alla frutta tropicale con tapas e snack”.
Da Suburbio Mocotó di Tommaso Protti su Cook_inc. 21
Rodrigo Oliveira, foto di Tommaso Protti
Forward Drinking: Mugaritz, San Sebastian – Spagna, chef Luis Andoni Aduritz
Il pioneristico ristorante basco nei 21 anni della sua esistenza è stato, a vario titolo, “il fenomeno gastronomico più importante del mondo negli ultimi tempi”, “il ristorante più avventuroso del mondo”, “il più sperimentale” e “nothing short of inspired“. Il merito di questo non è solo del fondatore del ristorante, Andoni Luis Aduriz, ma dell’intero team di Mugaritz in continua ricerca ed evoluzione. Per il 20 ° anniversario del ristorante nel 2018 il ristorante ha perseguito la sua ossessione per ciò che definisce le “armonie emozionali” tra cibo e vino. Andando oltre gli abbinamenti tradizionali per far in modo che “solido e liquido si unifichino in un singolo elemento”.
Original thinking:Le Clarence, Parigi – Francia, chef Christophe Pelé
“Alla faccia di tutte le tendenze , preferisce seguire il suo fiuto. E che in un epoca in cui la caccia gioca principalmente sul mito della mascolinità, sui sapori forti e testosteronizzati, lui preferisce cercare semmai la freschezza, il fruttato della carne per niente frollata… È quello che si cerca al Clarence. L’intuizione e la riflessione. La semplicità del detto comune e la svisata dell’interdetto, il contrasto dello strappo, la tela lacerata, squarcio su un retroscena dove non è più solo questione di cucina. Ma di storie, di vite, di moralità leggendarie, di autobiografie in process, di autofiction volatile secondo le inflessioni e gli umori del giorno”.
Da I
sotterranei del Vaticano di Andrea Petrini su Cook_inc. 22
Christophe Pelé, foto di Philippe Vaurès Santamaria
Ci sono innumerevoli esempi di strette collaborazioni tra chef e produttori, ma quella tra Cotter e Walsh è caratterizzata dalla sua longevità (ben 18 anni) e sinergia (una collaborazione di amicizia e creatività).
Enduring Classic:La Mère Brazier, Lione – Francia, chef Matthieu Viannay
“Un ristorante dove il cuoco si mette a nudo
da solo per economizzare il divanetto dello psicanalista. Un posto storico dove
il padron di casa non dissimula mai, ma si esprime con la stessa verace
intensità nelle sue ultime creazioni che nei best of, svisati e corretti, della
tradizionale casata. Quel saper
declinare, senza mai strafare, nella sua casa madre, nell’adiacente e tanto
sciccoso wine bar o nella Rue Royale by Mathieu Viannay da pochissimo
trasportata a Dubai, le varie sfaccettature d’una giovanile personalità che fa
dell’iconica Sfinge Brazier/Viannay la chiave di volta congiunta e del suo
plateale successo patinato quanto basta di mistero. Più bella ricetta
esistenziale è difficile trovarla”.
Da Le Père
Brazier di Andrea Petrini su Cook_inc. 21
Massimo Bottura e sua moglie, Lara Gilmore, hanno avviato il progetto no profit Food for Soul nel 2016 per affrontare “due facce dello stesso problema”, ovvero lo spreco alimentare e l’insicurezza alimentare. Circa 450.000 piatti dopo e Food for Soul si è espanso da Milano a Londra, Parigi, San Francisco e New York, con l’intenzione di aprire in Messico, Asia e Africa.
Off Map Destination: Wolfgat, Paternoster – Sud Africa, chef Kobus van der Merwe
Nella piccola e incantata Paternoster, villaggio incantevole di pescatori sulla costa a ovest sudafricana, a due ore di auto da Cape Town. Il ristorante Wolfgat si trova sulla spiaggia, in un cottage storico con una ventina di posti a sedere. Serve Hyper-local, considered, heritage, slow, seasonal Strandveld foodin acontemporary and stilish way ed è considerato un pioniere della rinascita della filosofia culinaria del Strandveld, la vegetazione costiera.
House Special: Lido 84 / Cacio e Pepe in vescica, chef Riccardo Camanini
Ad aggiudicarsi il premio è il signature dish di Riccardo Camanini e del suo Lido 84, la Cacio e Pepe cotta “alla cieca” (con maniacale precisione) in vescica di maiale. Dal sapore unico e scenografica: viene servita infatti davanti al commensale tagliando la vescica con un coltello ben affilato, con gli aromi inebrianti che avvolgono la sala a ogni apertura.
Da Riccardo Camanini @ Lido 84 ha raccontato Andrea Petrini su Cook_inc. 10.
Riccardo Camanini, a destra e suo fratello Giancarlo, foto di Bob Noto
Atmosphere:Vespertine, Los Angeles – Stati Uniti, chef Jordan Kahn
“More spaceship than restaurant, it’s like a hallucinogen sci – fi dream brought to life”, hanno commentato sui social dei The World Restaurant Awards.
New Arrival:INUA, Tokyo – Giappone, chef Thomas Frebel
“Uno dei pochi a sondare l’immaginario nippone esprimendolo in fase col mondialismo del nostro millennio – e la cucina di tempo in tempo recisa, controllata, raziocinante ma sempre non meno illuminante d’una elegiaca rivelazione colta in una sequenza di Andrei Tarkovski”.
“Avery simple idea”: il ristorante ospita chef rifugiati per un evento. Quest’idea è diventata evento nel 2016 con il primo Refugee Food Festival a Parigi. Ha unito 11 ristoranti, 8 chef e 1000 ospiti.
Ristorante dell’anno: Scelto tra i vincitori delle 12 categorie di Big Plates, il primo Ristorante dell’Anno dei World Restaurant Awards è Wolfgat, il piccolo e remoto paradiso della purezza e del buon gusto in Sud Africa vincitore della categoria Off Map Destination.
Chef Kobus van der Merwe, foto da The World Restaurant Awards FB
SMALL PLATES
Trolley of the Year : il meraviglioso carrello dei dolci di Ballymaloe House, Cork – Irlanda
Al Ballymaloe House di Cork, il sweet trolley non è mai passato di moda. Nell’ultimo decennio i contenuti del carrello sono stati supervisionati dal capo pasticcere JR Ryall: gelati e granite fatti in casa, una crostata di qualche tipo onnipresente, qualunque frutto sia di stagione, panna cotta, crème brûlée, i biscotti shortbread a forma di cuore e molto molto altro. Qui “Would you like to see the sweet trolley?” è sempre una domanda retorica.
Quando si tratta di usare Instagram per migliorare il profilo del ristorante, non sono solo i giovani a eccellere. Alain Passard, chef dell’ Arpège a Parigi, ha mostrato un gran talento per questo social media e ha guadagnato un nutrito pubblico completamente nuovo. Ha preso uno smartphone in mano per la prima volta nel marzo 2015 e ora intrattiene i suoi seguaci con foto di prodotti, un sacco di frutta e verdura naturalmente e piatti sbalorditivi regolarmente intervallati da ritratti di sè stesso like a rockstar. Da non sottovalutare anche la sua ossessione per il pollo, instagrammato “in ogni salsa”.
Alain Passard, foto di Richard Haughton da Cook_inc. 13
Long-Form Journalism : Lisa Abend –Il long read article da leggere almeno una volta nella vita è Food Circus, pubblicato su Fool Magazine lo scorso anno.
Da Bo e Dylan, la coppia thailandese / yankee proprietaria del ristorante Bo.Lan a Bangkok è tutto fatto con le loro mani, al 100%. Mancare la precisione scientifica della a pinzetta, fredda, ma si ottiene invece tutto il calore della vita, la sempre diversa, imperfetta e percepita bellezza e bontà di ogni singolo piatto.
E il vincitore è … lo chef che va davvero per la sua strada – che fa tendenza. Old School potrebber chiamarlo – erroneamente. Perché non è necessario seguire la via del ‘body art’, coprirsi da naso a capo di geroglifici ultraterreni, per trasudare quella qualità così importante in uno chef all’avanguardia: individualità. Alain Ducasse è un vero individuo. Allora perché dovremmo aspettarci che lui sprechi tempo e denaro (non ce n’è mai abbastanza per lui) su un tatuaggio, come quasi ogni altro chef alla moda del mondo?
Alain Ducasse, foto di Benjamin Schmuck da Cook_inc. 13
https://i1.wp.com/cookinc.it/wp-content/uploads/2019/02/Schermata-2019-02-19-alle-09.34.48.png?fit=797%2C602&ssl=1602797Gretahttps://cookinc.it/wp-content/uploads/2019/01/logo2x.pngGreta2019-02-19 09:43:282019-02-20 14:21:59THE WORLD RESTAURANT AWARDS 2019 – I VINCITORI
Un porridge alla panna molto acida, cuore di renna affumicato e burro nocciola all’aceto di prugna
Ricetta di Redazione Cook_inc.
Foto di Lars Petter Pettersen
Esben Holmboe Bang è il “giovane e gaudente ragazzone” del ristorante tristellato Maaemo a Oslo che Andrea Petrini ha raccontato su Cook_inc. 18 (Cibo e Musica) nell’articolo Melodic Electro dal titolo Esben is Stranger than Esben. “E ci sono i due capolavori assoluti, metafore vesperali del più lunare Dark Side di Esben, totalmente in fase “Ruth” con le amare note della Casseruola di Scampi del nord norvegese alle alghe tartufo (“delle alghe parassiti che crescono nutrendosi di altre alghe”). Tema notturno che Esben porta al suo massimo compimento ingegnandosi in consistenze e sapori – esattamente come nel disco di Robert Wyatt, lo stregone dell’elettronica Brian Eno s’inventava strumenti inesistenti (2) – nell’incredibile Rømmergrot, onirico porridge di crema acida e cuore di renna essiccato e grattugiato dall’animale(sco) effetto amplificato dal binomio burro salato/aceto di prugne per spingere l’acidità ai massimi livelli. “È un piatto frontiera, o lo ami o lo detesti, non permette mezze misure” fa Esben. Altro che wine pairing: lo accoppiasse alla filodiffusione del brano The Vile Stuff di Richard Dawson (Nothing Important, Weird Records 2014), pure lui sciamano, ma del nuovo sperimentale folk britannico, sarebbe davvero l’accordo straperfetto”.
Ecco la ricetta del Rømmergrot di Esben da abbinare a questa playlist, suggerita da Andrea Petrini.
per 10 persone
Per
il rømmegrot
520 g di rømme
(panna acida)
600 g di latte
40 g di farina
40 g di farina di grano tenero
sale q.b.
aceto di vino bianco q.b.
Mettere la rømme in una pentola, portare a fuoco basso finché non sta per bollire, aggiungere poco a poco la farina mescolando costantemente fino a ottenere un roux. Eliminare il grasso via via che si separa. Continuare a cuocere il roux, schiacciando per cercare di eliminare quanto più grasso possibile. Una volta cotto ed eliminato tutto il grasso possibile, aggiungere il latte a filo, come per una béchamel. Una volta incorporato tutto il latte, allontanare dal fuoco e aggiungere il sale e l’aceto.
Per il cuore di renna affumicato ed essiccato
18 cuori di renna
8 l d’acqua
400 g di sale
Portare a lieve bollore 1 l d’acqua e sciogliervi il sale e aggiungere il resto dell’acqua fredda per raffreddare. Ricoprire i cuori con la salamoia e lasciare a bagno per 12 ore. Togliere dalla salamoia e sciacquare con cura. Tamponare con un panno e lasciare asciugare ancora 1 ora in frigorifero, scoperti. Affumicare con il fieno per 3 volte. Disporre su una teglia su cui sarà stato messo un tappetino antiaderente. Disidratare a 60°C per 36-48 ore, in base alle dimensioni. Una volta raffreddato il tutto, grattugiare e passare al setaccio.
Per il burro nocciola all’aceto di prugne
500 g di burro nocciola caldo
100 g di aceto di prugne
Aggiungere al burro nocciola caldo l’aceto di prugne, in quantità sufficiente da sentirne l’acidità.
Per completare il piatto
2 cuori per ogni porzione
Riempire il fondo di una scodella con il rømmegrot. Coprire con uno strato spesso e omogeneo di cuore di renna grattugiato. Al centro, versare un cucchiaio di burro all’aceto.
Dove c’è scuola c’è scambio di idee. Da un’aula esci sempre avendo imparato qualcosa, vale non solo per gli studenti, ma per gli stessi attori della formazione. Il che aiuta a mettere a terra progetti concreti. Si fonda anche su tale presupposto la Giunti Academy School of Management, il nuovo progetto formativo con percorsi trasversali tra cibo, vino, turismo, beni culturali, economia, innovazione e trasformazione digitale. Si rivolge a neolaureati, ma anche a manager e professionisti in cerca di un aggiornamento professionale con corsi full e part time e stage in azienda della durata di sei mesi. Il progetto nasce in seno a Giunti Editore, azienda leader nel settore dell’editoria enogastronomica che intende così mettere a frutto nella didattica il suo vasto patrimonio editoriale. Quattro i corsi previsti tra febbraio e novembre 2019: Restaurant Innovation and Management (part time dal 25 febbraio a Firenze); Wine management (part time dal 10 maggio a Roma); Management in food and wine (full time 20 maggio a Roma); Beer Business Management (part time 8 novembre).
Marco Bolasco presenta la Giunti Academy
A illustrare il progetto, presentato a Roma all’Osteria di Birra del Borgo, è stato Marco Bolasco, direttore dell’area enogastronomica di Giunti Editore che ha tenuto a precisare come non si tratti di una scuola di cucina o di sommellerie, ma di un’offerta formativa innovativa e trasversale che darà la possibilità di creare progetti su misura per le aziende oltre a fornire una visione di dove sta andando il settore di riferimento. “In un momento di sovraesposizione mediatica riguardo a tutto ciò che ruota intorno all’enogastronomia, sentiamo tutti il bisogno di un maggiore approfondimento. Sarà una opportunità e una risorsa per la stessa casa editrice che attraverso la formazione acquisirà gli stimoli per nuovi contenuti”. I corsi si avvalgono della partnership di numerose aziende leader del mercato e dei più autorevoli e competenti esperti e professionisti del settore i quali, come ha sottolineato Rossella Calabrese, direttore di Giunti Academy “sapranno raccontare la concretezza di una professione. Lavorare direttamente con le aziende apre alla possibilità di creare per esse nuovi progetti. Una delle chiavi della formazione saranno proprio quelle competenze economiche che non si possono improvvisare e che sono fondamentali per la sostenibilità di qualsiasi iniziativa imprenditoriale”.
Osteria Birra del Borgo
Competenze destinate a
tradursi in una “cassetta degli attrezzi” da poter utilizzare subito nella
propria professione. “Programmi, contenuti e moduli formativi vengono di solito
considerati buoni per sempre. È invece fondamentale ripensarli
costantemente data la rapidità dei
mutamenti”, ha aggiunto uno dei formatori, Federico De Cesare Viola, direttore
editoriale della neonata Food & Wine Italia, versione tutta italiana del più
famoso magazine di enogastronomia al mondo. De Cesare ha rilevato come uno degli
aspetti nevralgici del post master sia il momento del placement: “alla fine dei corsi si crea sempre un certo imbarazzo
tra scuola e aziende. Bisogna invece far capire come uno studente sia una
risorsa e per questo serve una comunicazione costante per creare percorsi su
misura e figure professionali che vadano a riempire quei ruoli di cui le aziende hanno bisogno”.
Un esempio di questa concretezza, di come cioè possa funzionare l’interazione tra scuola e mondo del lavoro, viene proprio dall’Accademia Niko Romito, lo chef tre stelle Michelin di Reale Casadonna (partnership dell’iniziativa) la cui scuola ha sede a Castel di Sangro in Abruzzo. “La nostra – ha detto Niko – è la prima scuola diventata impresa avendo investito sugli allievi, scommettendoci e mettendoci la faccia. A provarlo le innumerevoli iniziative nate sul territorio (in Abruzzo hanno aperto ben 13 attività fondate da ex studenti) che si sono sviluppate anche grazie a un’attenta indagine di mercato. “In questo momento – è il messaggio di Niko ai giovani – manca una cucina di mezzo, inclusiva, con prezzi democratici che abbia dietro un metodo, un progetto. Spesso si pensa che il centro delle grandi città sia il posto giusto per aprire nuovi locali, ma non è così. Può offrire più opportunità un posto ben scelto nella periferia”.
Anche nel settore vino si
persegue una strada innovativa, illustrata, con il solito acume, da Fabio
Rizzari, uno dei personaggi di maggior spicco del mondo del vino cui si
affiancheranno nei corsi altri nomi di calibro come Armando Castagno, Giampaolo
Gravina, Ernesto Gentili, Paolo Zaccaria,
Alessandro Masnaghetti. “Nella generale contrazione dell’editoria enogastronomica, il settore
vino tiene e anzi cresce, segno di un
bisogno di conoscenza non ancora soddisfatto”, rileva Bolasco seguito dalle
considerazioni di Rizzari: “Sul vino c’è oggi un’offerta formativa o più
semplicemente formativa elefantiaca, ma non sempre di alto livello. Sono
centinaia i corsi di degustazione organizzati da nord a sud ma sin qui, escluse
due o tre strutture, il vino viene visto per lo più come oggetto da scomporre,
analizzare secondo i canoni della cosiddetta degustazione tecnica. Noi abbiamo un’ambizione
in più, quella di studiare gli aspetti più complessi dell’interpretazione del
vino come centro di un fitto reticolo di rimandi multidisciplinari accedendo a
un livello di consapevolezza maggiore”.
https://i1.wp.com/cookinc.it/wp-content/uploads/2019/02/IMG_0369.jpg?fit=795%2C594&ssl=1594795Gretahttps://cookinc.it/wp-content/uploads/2019/01/logo2x.pngGreta2019-02-10 15:00:302019-02-11 10:20:52GIUNTI ACADEMY
Seconda Stella a destra – Il cammino verso l’Isola
dei sogni di Moreno Cedroni e Mariella Organi
Testo di Lorenzo Sandano
Foto di Alberto Blasetti
“Le stelle, per quanto meravigliose, non possono in alcun modo immischiarsi nelle faccende umane, ma devono limitarsi a guardare in eterno. È una punizione che si è abbattuta su di loro così tanto tempo fa che nessuna stella ne ricorda il motivo. E così quelle più anziane sono diventate cieche e taciturne, ma quelle più giovani si meravigliano ancora di tutto”
Peter Pan – James Matthew Barrie
Riprendiamo l’immagine da cartolina di Senigallia, così come l’avevamo lasciata qui. Avvolta dal magico clima invernale, pullulante di rampanti insegne ristorative. E in ambito di magia, non possiamo non citare un baluardo di questi lidi sabbiosi come la Madonnina del Pescatore di Moreno Cedroni e Mariella Organi. Non la farò lunga, ma è innegabile quanto i protagonisti di questo ristorante trasmettano palpitazioni fiabesche a ogni visita. Gli occhioni blu adriatici, acuti e teneri simultaneamente, fanno da sincera preview all’animo di un grande cuoco dall’inesauribile verve fanciullesca come Moreno. Quasi a incarnare una trasposizione culinaria del bimbo sperduto di J.M. Barrie. Non nell’idea caricaturale del ragazzino in calzamaglia che non vuole saperne di crescere. Al contrario, il percorso intrapreso da Cedroni delinea un traguardo umano invidiabile: l’avanzamento costante e consapevole verso una maturità espressiva. Senza mai tradire lo spirito luminoso di quel bambino interiore che troppo spesso (ahimè) tendiamo a dimenticare.
Moreno Cedroni e Mariella Organi
In ogni sua scelta, intuizione o sussulto vitale, rintracciamo un mix zelante di creatività ricreativa. Capace di agguantare la concretezza in forma insolitamente leggiadra, fresca, goliardica. Con un suo accento ironico che solletica angoli remoti della memoria infantile. Uno dei primi in Italia – della sua generazione – a sdoganare con efficacia il profilo di cuoco imprenditore. Tramite mezzi altamente innovativi per tempi e contesti fine dining: conserve ittiche in scatola, susci all’italiana, panini gourmet e affettati di pesce, solo per citarne alcuni. La serie vincente di format pop, inaugurati con metro capillare nel terroir marchigiano (ne parleremo più in là). Così, statuario e lucente, riecheggia in oltre 30 anni di storia il bagliore identitario delle stelle della Madonnina. Quasi a disegnare un parallelismo metafisico con la statua protettrice di marinai e pescatori, che scruta l’Adriatico appena fuori il ristorante
La sala
Nella luminosissima sala –
con pareti a vetro che proiettano gli ambienti in mare aperto – troviamo il
sorriso radioso e l’eleganza professionale di Mariella (moglie dello chef) a
comporre l’anima complementare del ristorante. Razionale e meticolosa, ma integrata
al mondo onirico di Moreno come Wendy per Peter Pan. In questa istantanea di
floride energie, la cucina narra con estro e solidità “l’Isola che non c’è” di
Cedroni. O meglio, un’oasi espressiva che esiste e resiste: coniugando ricerca,
sensibilità, entusiasmo spericolato e una componente ludica che traghetta la
fantasia su sponde leggiadre e sognanti. Un viaggio colorato, che intreccia
brillantemente visioni contaminate (tanto Oriente, ma non solo), tributi
tradizionali al territorio e soprattutto personalità ineguagliabile. Nobilitando
il divertimento, con rinnovata centralità del gusto.
Ostrica alla griglia “mangia e bevi”
Pensiamo al ricordo
evocativo del trascorso in Vietnam, che si manifesta in un’elettrizzante Ostrica alla griglia“mangia e bevi” con cipolla,
salsa verde e sinuoso allungo piccante. Esplosiva. La soffice Brioche (dalla texture di un takoyaki giapponese) che con battuto di
levistico e acciuga spalleggia in ritmo esaltante un margarita ghiacciato. Street-comfort
e levità a braccetto. Maestoso il Moro
oceanico, salsa di mandorle al curry, misticanza e dragoncello: le falde
croccanti e sode del pesce, dai rimandi lattosi, sugellano uno scambio di
contrasti superlativi con gli acuti verdi e aromatici del condimento. In
andatura nipponica, mirabile per idea e gesto tecnico il Ramen tiepido di spaghetti, pancetta di ricciola affumicata, friggitelli,
ananas, uovo marinato e brodo all’anice stellato. Ottovolante di sfumature
orientali, tradotte limpidamente in scala di sapori italiani.
Ramen
Il menu decolla in sostanza con la Testa di ricciola, carote, zenzero e basilico. Quello che in origine poteva essere uno scarto, consumato nello staff lunch, trova nuova vita esibendo opulenza primordiale dal valore assoluto. Se non “succhi” gli occhi, godi solo a metà. Ancora tracce cosmopolite, coordinate al millimetro, verso lo sprint finale: prima nella succulenta Anguilla di mare alla brace, alloro, rapa rossa e cavolo viola fermentato (trovatemi altri in Italia che sanno cuocere l’anguilla così). Poi nello strepitoso Piccione, melanzane affumicate e salsa masala. Il dry aging di 28 giorni sulla carne del volatile dona profondità e morso mirabolanti. Ma è la propulsione di profumi speziati e nuances fumées a rendere memorabile ogni boccone. Senza scordare il filetto crudo abbinato all’acciuga cantabrica, e il delizioso cuoricino caramellato con miele e soia. Chapeau!
Testa di ricciola, carote, zenzero e basilico.
Il Fico nero ghiacciato con gelato al gorgonzola e acqua di foglie di
fico è un passaggio geniale per rinvigorire i sensi. In vista del Millefoglie di acero, gianduia, cardamomo e
cannella, che conquista il palato riassumendo gola e finezza. L’esodo
rimane in atmosfera fiabesca: dalle avventure di Peter, voliamo nel Paese delle
Meraviglie di Alice. Con una scenografica piccola pasticceria che risveglia gioiosamente
il lato fanciullo dell’assaggiatore. Come d’altronde non smette di viverlo e interpretarlo
– con dialettica inimitabile – questo prezioso chef dal carattere forever young.
https://i2.wp.com/cookinc.it/wp-content/uploads/2019/02/Alberto-Blasetti-Ph.-7245.jpg?fit=804%2C598&ssl=1598804Gretahttps://cookinc.it/wp-content/uploads/2019/01/logo2x.pngGreta2019-02-05 16:33:512019-02-06 16:12:47SENIGALLIA DREAMIN’ (PT.2): MADONNINA DEL PESCATORE, TRA FIABA E MATURITÀ RINNOVATA
Cinquant’anni fa non
esisteva neppure con il nome di Amarone. Nel 1968 si chiamava Recioto della
Valpolicella Amarone. Allora non si sarebbe mai immaginato il successo mondiale
di questo vino, che, riassunto in qualche freddo numero, dà la dimensione del
fenomeno. Attualmente gli ettari sono circa ottomila, il giro d’affari di circa
trecentotrenta milioni di euro, costruito da una filiera produttiva composta di
piccole, medie e grandi aziende, un super-prezzo delle uve, con la produzione
di un singolo ettaro capace di toccare a valore 24.000 euro, un brand sempre
più amato nel mondo, e una vallata ancora più verde per una nuova generazione
di giovani che ha preso il testimone dell’economia dell’Amarone nei 19 comuni
della Valpolicella (329 aziende sulle 1.736 consorziate).
Uve autoctone della Valpolicella in appassimento
La Cinquantunesima anteprima del principe dei vini veronesi, organizzata dal Consorzio Tutela Vini Valpolicella, con la presentazione dell’annata 2015, è stata un successo che ha richiamato tremila persone. D’altronde l’Amarone è oggi considerato a ragione il più prestigioso vino rosso veronese e uno tra i primi in assoluto nel panorama vinicolo italiano e internazionale: le esportazioni ne sono una chiara conferma con un 65% di vendite all’estero. Sottolineiamo che l’Amarone della Valpolicella, anche con le versioni Classico e Valpantena, rappresenta nel panorama enologico mondiale uno dei rari esempi di vini rossi secchi generati da uva appassita (nella tecnica dell’appassimento i produttori veronesi sono esperti mondiali). Non solo: è ottenuto principalmente con uve autoctone della Valpolicella (Corvina, Corvinone, Rondinella).
Olga Bussinello e Andrea Sartori
Gli assaggi di molti dei sessantotto
vini (di cui più della metà erano campioni prelevati da botti) di
sessantacinque aziende dell’annata 2015, hanno dimostrato un cambio stilistico.
Si stanno ritrovando le tracce dell’Amarone di trent’anni e più fa, di quando era
espressione di finezza ed eleganza. Dopo è diventato un vino emblema della potenza
muscolare, dell’opulenza, del volume, della dolcezza (quasi marmellatosa). Certo,
qualche consumatore resterà spiazzato ad assaggiare alcuni Amarone più leggeri
e “sottili” (pur mantenendo struttura e piacevolezza), ma il cambio di passo va
nella direzione della modernità e della maggior bevibilità. L’annata promette
molto bene e sembra avere tutte le carte in regola per diventare la migliore
degli anni 2000.
Invecchiamento in bottiglia
E il suo abbinamento a tavola? L’Amarone continua a sposarsi in connubio perfetto con carni rosse alla brace, roast beef, brasati, tagliate di manzo o puledro, arrosti con sughi saporiti, ma anche con selvaggina sia da pelo sia da penna. Delizioso l’abbinamento anche con i formaggi a pasta dura e stagionati, come il Parmigiano Reggiano, e con la frutta secca, in particolare le noci. Può trovare armonia anche con dei primi piatti sapidi, per esempio conditi con tartufo, lepre e selvaggina. Tuttavia, la concentrazione straordinaria del sentore di fruttato di ciliegia e lampone e quello delicato di uva secca e spezie permettono all’Amarone abbinamenti originali. Lo sposalizio con i gusti “agrodolci” e con ricette provenienti da altre culture gastronomiche può avvenire con soddisfazione. Buona idea servirlo da solo prima del dolce: resta comunque uno dei pochi vini rossi italiani che non ha bisogno del cibo per essere apprezzato.
Il ristorante Materia di Davide Caranchini “è uno di quei luoghi che è bene affrontare ora, per capire come sarà la cucina fra qualche tempo” scrive Gualtiero Spotti su Cook_inc. 22. Ecco la ricetta del suo Piccione, bacche di ginepro, sambuco e biete.
Piccione, primo servizio
per 4 persone
Per il piccione
4 piccioni
Cuocere il piccione sulla carcassa in una lionese ben calda fino a ottenere una pelle ben dorata e croccante. Trasferire in un mantenitore di temperatura e lasciar riposare almeno 20 minuti prima di servirlo.
Per l’estratto di ginepro
150 g di bacche di ginepro
Passare all’estrattore le bacche di ginepro per ottenere una purea molto concentrata. Trasferire in un biberon e conservare in frigorifero.
Per la salsa
1 l di succo di bacche di sambuco (ottenuto passando le bacche all’estrattore)
60 g di porri
50 g di cipolla bianca
50 g di carote
12 g di timo
7 g di rosmarino
2 foglie di alloro
2 chiodi di garofano
3 spicchi d’aglio
50 ml di fondo di piccione
Togliere le cosce e le ali dal piccione. Mettere le ali e il collo a marinare per 24 ore con tutti gli ingredienti tranne il fondo; conservare le cosce per un’altra preparazione. Una volta passate le 24 ore, fare cuocere in una pentola a fuoco molto basso per circa 5 ore, filtrare e lasciar ridurre fino ad ottenere circa 100 ml di liquido. Filtrare all’etamina, unire al fondo di piccione e far ridurre ulteriormente fino a ottenere 100 ml totali. Disossare il piccione, spremere le carcasse con un torchio e aggiungere i succhi ottenuti alla salsa di sambuco.
Per le biete
8 foglie di bieta
olio extravergine d’oliva
aceto di lamponi
sale q.b.
Sbollentare per 10 secondi le biete e poi condirle con sale, olio e aceto di lamponi.
Per completare il
piatto
Nel piatto distribuire qualche goccia di estratto di ginepro, adagiarvi due mucchietti di biete, disporre i due petti del piccione e terminare con la salsa calda.
Fermenti. Vien da
riassumere così quella vivacità gastronomica che si va sempre più palesando nella
cucina regionale abruzzese mai come ora tanto in forma e ricca di aspettative.
A registrarlo è come ogni anno l’appuntamento clou di Meet in Cucina, congresso
regionale di cuochi alla sua quinta edizione dedicata tutta all’Abruzzo. E se,
come notava il suo ideatore Massimo Di Cintio, Meet è la fotografia dello stato
dell’arte della cucina regionale, la presenza di tantissimi giovani in rampa di
lancio prefigura bene il futuro agroalimentare della regione.
L’intervento di Danilo Cortellini
Moltissimi di questi giovani
escono dal vivaio di Niko Romito e stanno letteralmente disegnando la cartina
gastronomica regionale. Ognuno di loro con un posizionamento gastronomico ben
preciso, vuoi con l’apertura di una pizza al taglio, vuoi di un ristorante, vuoi
di un cibo di strada, vuoi nella banchettistica…, il tutto frutto di
quella “formazione personalizzata”
svolta dall’Accademia fondata da Romito. Perché, come ha spiegato lo stesso
Niko, “non c’è bisogno di format di ristorazione fine dining, non c’è bisogno di stelle Michelin – anche se il
grande chef Mauro Uliassi, presente “per
amicizia” in quanto anche confinante, si è detto contentuccio di averne messe tre in saccoccia quest’anno… – ma di
lavorare su modelli di ristorazione che rispondano alle diverse necessità
territoriali e di pubblico”. Dal 2011, da quando cioè l’Accademia di formazione
è stata inaugurata, sono ben tredici gli ex studenti (per contare solo
l’Abruzzo) che hanno aperto la propria insegna e questo anche grazie alla
capacità del formatore di iniettare coraggio e la motivazione a scommettere su
se stessi con modelli imprenditoriali di ristorazione diversi l’uno dall’altro.
A conferma del fatto che se si semina, si raccoglie e pure piuttosto in fretta.
Foto di gruppo di Meet in Cucina
L’Abruzzo marcia così con una chiave e una cifra di servizio e con realtà molto coraggiose, contaminate, che si affacciano anche nei luoghi più distanti: vedi Tosto ad Atri con la cucina di Gianni Dezio, emigrante di ritorno essendo scappato con la famiglia dal suo Venezuela in crisi e di cui abbiamo ampiamente parlato su Cook_inc. 20. O la nuova entrée dei due giovani, Mariachiara Guastadisegni e Antonio Blasi, con il loro Tamo a Spoltore. Lei, laureata in scienze politiche in sala, lui che ha girovagato per i santuari della gastronomia, da Ducasse a Beck a Koschina sono lì a scommettere su una formula coraggiosissima e non solo per una obbligata condivisione dell’unico tavolo comune, ma per una cucina che surfa sulla nuova onda internazionale (ragazzi, attenti però alle schiumette, consiglio non richiesto di una nonna che ne ha viste troppe in giro …).
Uno dei piatti di Franco Franciosi
Ma per tornare a Meet e
soprattutto ai ragazzi della scuderia di Niko, è la carta della condivisione
l’elemento che arricchisce il panorama regionale in una rete di rapporti e
relazioni che unisce percorsi ed esperienze con il leverage dei prodotti agroalimentari
d’eccellenza della regione. Come questi vengano valorizzati lo si è visto nella
giornata di congresso secondo la consueta formula dello show cooking. Uno degli
esempi, quello di Franco Franciosi di Mammaròssa ad Avezzano la cui storia è
stata anche pennellata da Marco Bolasco sull’utimo numero di Cook_inc., il 22. A
riprova di una terra sorprendentemente in grado di assorbire fermenti ed
esperienze, non a caso una terra di emigrazione e di transumanze, Franciosi ha involontariamente
indicato i Frascarelli (una sorta di
cus cus in forma di gnocchetti, preparati con mugnuli selvatici e cozze
dell’Adriatico) come il simbolo di una cultura di riporto che nutrendosi di
transumanze assimilava usi diversi: “Vado in un posto, torno e riporto”,
riassumeva Franciosi.
Uno dei piatti di Mattia Spadone
Anche Mattia Spadone de La Bandiera di Civitella Casanova ha messo in scaletta Frascarelli di saragolla, cacio, pepe, riduzione di alloro e coratella. E se non è riporto, è contaminazione, nordafricana nel caso del piatto di Pecora in tajine, sempre di Franciosi, dove la tradizione popolare viene contaminata dagli usi della comunità marocchina di Avezzano. Per assonanza anche Sabatino Lattanzi che con Frederik Lasso (altro allievo di Niko!) forma il team di Zunica di Civitella del Tronto ha mostrato la preparazione di un Kebab di pecora. Non poteva poi mancare un vero ambasciatore della cucina abruzzese (ops, italiana) con Danilo Cortellini chef dell’ambasciata italiana a Londra, “abruzzese al cento per cento”, che, nella patria dell’agnello, presentando il suo piatto Agnello alla liquirizia con pesto di fave, cicorietta e pallotte cacio e uova, ha candidamente confessato di esserselo portato dalla Scozia. Vado, torno e… riporto!
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