Reportage
rivoluzione di montagna
La rivoluzione silenziosa di Michele
La tradizione come “terreno fertile
Foto di
Guido Rizzuti
La rivoluzione silenziosa di Michele
6 minuti

Ci sono molti modi per fare la rivoluzione. Michele Valotti ha scelto di farla quotidianamente e sottovoce. Eppure, a vederlo – barba lunga, tatuaggio e jeans rotti – te lo aspetteresti alla testa di un corteo, tamburo in spalla a urlare le sue battaglie. Ma poi guardi i suoi occhi e capisci al volo che la sua barricata è la porta di una cucina e gli slogan sono i piatti con i quali ogni giorno lotta per un futuro diverso, dove a vincere sono gli allevatori, i contadini, i norcini e i formaggiai più genuini e capaci. Sono loro gli insostituibili alleati e fornitori del suo splendido arsenale.

La Madia è un locale ricco di colori, pieno di oggetti, dove tavoli e lampadari non sono scelti su una rivista di design e l’uno non assomiglia all’altro. Alle pareti tra chiavi, cavatappi e bastoncini da sci c’è scritto “Un piatto non si giudica solo dalla sua bontà ma anche dalla storia che ci racconta” e “Dietro al nostro cibo non ci sono marchi ma facce” e queste sono le frasi che riassumono le fondamenta della cucina di Michele.

Siamo a Brione, piccolo paese a sud della Val Trompia. A metà strada tra Brescia e la Franciacorta. Un villaggio di alta collina, ma con una cucina di montagna, quella vera, fatta di formaggi, burro, piante spontanee e carni. La tradizione di questi luoghi ha un legame strettissimo con la caccia che, qui, gastronomicamente, significa spiedo: una preparazione dalla lentissima cottura a base di uccelli e carne di maiale. Michele con la tradizione ha però un rapporto tutto suo: la guarda pensandola come un terreno fertile da coltivare e dal quale ottenere frutti nuovi. Non è interessato alle ricette, ma ai gesti e ai riti. Non gli importa che un piatto risponda a rigide regole stabilite chissà quando e da chissà chi, vuole che la tradizione sia attuale e rispettosa dell’ambiente e delle persone che abitano quei luoghi. Così lo spiedo nella sua versione non prevede gli, oggi proibiti, uccellini, ma le sardine essiccate del lago d’Iseo – Presidio Slow Food – e alle anonime carni, sostituisce lonze, capocolli e pancette provenienti da allevamenti con un nome e un cognome. Una faccia direbbe lui.

Di facce alla Madia ce ne sono tantissime, sono nelle fotografie dei contadini e degli allevatori appese ai muri. Sono nei grandi frigoriferi in sala che esibiscono formaggi, salumi e costate di manzo lasciate a frollare per quasi quattro mesi prima su una piastra di sale e poi avvolte dalla sugna. Per ognuna c’è il nome del produttore, la razza dell’animale, la data di nascita e di macellazione.

Le trovi nel menu, le facce: tutti i piatti e tutti gli ingredienti sono accompagnati dalla loro carta d’identità, con nome e numero di telefono di chi ha coltivato quella carota o allevato quel piccione. E infine sono nei piatti.

E infine sono nei piatti. Si scopre così un paesaggio di artigiani e di contadini che Michele incontra quasi quotidianamente. Molti vengono direttamente all’osteria, si fermano per un bicchiere di vino e per raccontare la stagionatura di una forma di stracchino o le spezie presenti nel salame. È il caso di Alberto Lazzari, un bravissimo macellaio, allevatore e norcino della provincia cremonese che all’osteria fornisce oche, anatre, galline, salami e cotechini e che mostra con orgoglio, a tutti quelli che incontra, il video delle sue oche. Oche che vivono libere e che lui cerca di far diventare più grosse di quelle del parroco del paese, con il quale ha in ballo una gara su chi sia in grado di allevare l’animale più bello e pesante. Una gara dal sapore antico che sembra uscita da un racconto di Guareschi, dove non sono ammesse facili scorciatoie per raggiungere la taglia desiderata e le uniche regole sono la piena consapevolezza delle proprie capacità e il rispetto dell’animale. Vale per le oche e per tutte le altre carni: se non provengono da un allevamento che rispetti l’animale, alla Madia non si trovano. Ed è anche per questo che la pecora ha per Michele un ruolo così importante. 

Pur antropizzata, la pecora mantiene una dimensione selvatica. È impossibile allevarla senza lasciarle spazi di libertà, senza portarla al pascolo, senza permetterle di nutrirsi dell’erba che trova in autonomia. È, più di altri, un animale figlio dei luoghi in cui viene allevato.

La pecora, inoltre, con queste valli ha avuto e continua ad avere un rapporto privilegiato.

Ancora oggi sono decine i pastori che vivono e lavorano sulle montagne e nelle campagne che circondano La Madia. La loro quotidianità non è poi tanto diversa da quella dei loro genitori e nonni: spostano le pecore dalla montagna alla pianura al cambiare della stagione; nei caldi pomeriggi estivi dormono vicino ai loro animali; macellano i maschi del gregge solo in età adulta. A cambiare sono le comodità e gli acquirenti. Non si dorme più sotto l’albero in mezzo al campo, ma nella roulotte, e la carne, più che alle osterie, viene venduta alle macellerie halal

Anche la razza è rimasta la stessa, la gigante bergamasca. Una pecora di grandi dimensioni e dall’accrescimento rapido, che mantiene una carne delicata e tenera anche se macellata in età adulta. Un grandissimo pregio, quest’ultimo, agli occhi di Michele. Una caratteristica che gli consente di cucinare la pecora secondo tradizione in lunghe cotture in brodo o arrosto, o di utilizzarla in modo contemporaneo con leggere brasature che mantengono le carni rosa e succose. Il risultato è una carta dalle tante tinte, proprio come la sala, dove accanto ai classici si trovano piatti figli di percezioni, pensieri e paesaggi incontrati in giro per il mondo. Un menu che ospita le Tagliatelle al muschio con ragù di pecora, la Pecora stracotta con Polypodium (una felce selvatica la cui radice ricorda la liquirizia) e servita con crema di castagne, crumble di segale, porcini e cavolo fritto e ‘L Cuz con polenta, una tradizionalissima preparazione della Val Camonica che si presenta come un confit ovino cucinato per molte ore nel grasso aromatizzato con erbe, spezie e sale. La Pecora alla selvaggia, un piatto che mette in evidenza la delicatezza della coscia della pecora che viene marinata intera con succo di melograno, affumicata a caldo e condita con salvia e timo per poi essere servita, tagliata a fette sottili, su una pietra. Bisanzio, un Kebab accompagnato da tzatziki, omaggio al modo di cucinare gli ovini nel Medioriente, e la Pecora arsa, il filetto dell’animale cotto alla brace e servito con resine ed erbe aromatiche, che evoca i profumi e le immagini di un viaggio in Grecia dove le pecore pascolano circondate dalle fragranze di elicriso, finocchio e ginepro rosso. 

Non è provocazione, è uno sguardo al passato con occhi nuovi per coinvolgere chi mangia in questo luogo in un racconto antico e ormai quasi sconosciuto. I pastori sono stati per secoli l’anima di queste terre e grazie a cuochi come Michele quella storia continua a vivere e a crescere nella nostra cultura.

Posto
Trattoria La Madia

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