Davide Longoni ha cinque madri e vuol bene a tutte: quando ne parla sorride. “Le vuoi vedere?”, chiede. Fa una specie di slalom tra alti carrelli carichi di cornetti e forme di pane appena sfornato e si incunea nell’angolo del laboratorio dove si trovano le celle frigorifere: ogni volta mi stupisce la delicatezza con cui questo fornaio dal fisico da rugbista si muove quand’è al lavoro. Ritorna con una serie di contenitori che mette in fila su un lungo bancone d’acciaio. “C’è la madre di segale”, elenca, indicandoli via via, “la madre sourdough in stile Vermont, per cui ci siamo ispirati alla ricetta di Jeffrey Hamelman; la madre per il panettone, che conserviamo in acqua come da metodo piemontese e non va mai tenuta in frigo, per evitare che inacidisca; la madre della pizza, che Fabio porta a un livello di fermentazione che scherzando definisco “semi-marcio“; e infine la madre che usiamo per quasi tutto il pane”. La “madre” è la “pasta madre”, che il brianzolo Longoni, panificatore tra i più celebri d’Italia, usa per far esprimere al meglio le farine con cui lavora.
“Fabio”, invece, è Fabio Venturini, lo spoletino a cui ha affidato le pizze del Mercato del Suffragio, riuscito esperimento di conversione di un mercato comunale abbandonato in una realtà di vendita e ristorazione veloce, vivace e di qualità, inaugurato l’anno scorso in Corso XXII Marzo a Milano. Fabio non è il solo giovane a lavorare con Longoni: molti ragazzi sono transitati dal suo negozio in Via Tiraboschi e dai suoi vari laboratori, prima alla Cascina Sant’Alberto di Rozzano e oggi in via Tertulliano, all’interno di un complesso di ex capannoni industriali, tra carrozzerie, studi fotografici e scuole di danza. Il nuovo laboratorio è già in fase di ampliamento, “perché siamo tanti e perché i miei ragazzi della pasticceria pretendono, giustamente, un’area di lavoro dedicata”, spiega lui: “Si sa, i pasticceri sono precisi, noi invece siamo un po’ casinisti…”. Longoni è un mentore nato, il punto di riferimento per molti dei giovani protagonisti del “rinascimento“ del pane italiano. Una scena piccola così (si conoscono tutti) che sembra grande perché è già molto forte e sta imponendo un cambio di paradigma su più di un fronte: qualitativo, sì, ma soprattutto filosofico. “Quanti ragazzi ho formato? Una trentina in maniera approfondita, centinaia se contiamo anche gli affiancamenti da 2-3 giorni. Il mio sogno è aprire una scuola in un contesto di azienda agricola, dove coltivare grano, da trasformare soprattutto a uso interno, e produrre olio e vino”.



Al momento il braccio destro di Longoni è Adriano Del Mastro, il primo panificatore del ristorante Reale di Niko Romito, passato in seguito dal forno di Gabriele Bonci, a Roma. Adriano, 28 anni, abruzzese di Campo di Giove, attacca gli impasti con l’economia di gesti che deriva dall’esperienza, “pochi movimenti essenziali”, commenta Longoni soddisfatto, osservandolo all’opera. Azzardo una scommessa e dico che di Adriano e delle sue imprese in panificazione scriveremo tra non molto: ha la tipica quieta intensità di chi possiede grande talento e un progetto che gli frulla per la testa. Sotto Adriano lavorano Diego, Carlo e Lorenza, assunti grazie a SportelloStage, “e stiamo aspettando un apprendista dalla Food Genius Academy”, prosegue Longoni. “Ci hanno fatto visita alcuni studenti dello IED, e facciamo anche formazione aziendale, appoggiandoci a un tour operator specializzato in pacchetti business: poco tempo fa abbiamo ospitato dei brasiliani e dei tedeschi. È un porto di mare, con gente che va e gente che viene: anche per questo servirebbe una scuola strutturata”, spiega Longoni, che intanto insegna al corso triennale di panificazione del CFP di Seregno.
Longoni è figlio di panificatori e nipote di panificatori, ma ha trovato un approccio al mestiere del tutto personale. Il padre e lo zio sfornavano pane “comune”, l’unico virtuosismo era la michetta. La produzione di Davide invece si è gradualmente concentrata sullo studio e la valorizzazione dei grani storici: parliamo quindi di grani antichi, ovvero di migliaia di anni fa (come il farro monococco), ma anche di cosiddette vecchie varietà di grani duri e teneri, dalle landrace (varietà locali semiselvatiche, legate a zone ben precise), come Tumminìa, Perciasacchi, Gentil Rosso e Solina, alle prime varietà migliorate, come Verna e Senatore Cappelli, create per incrocio e selezione dai famosi breeders di inizio ’900, tra cui Nazareno Strampelli, Francesco Todaro e Marco Michahelles. Prima che l’industria imponesse lo sviluppo di grani più facilmente coltivabili, più uniformi (più brutti), più bassi, più forti sotto il profilo del glutine. È utile questa digressione nella nomenclatura: le parole, in botanica come nei film di Nanni Moretti, sono importanti, e non tutti i grani storici sono uguali, anche se condividono alcune fondamentali caratteristiche, a partire da profumo e sapore, che sono sempre netti e ricchi; il loro aroma diventa un marcatore di denominazione geografica: anche per queste spighe, dunque, si può parlare di “terroir”.
“Valorizzo le farine di vecchi grani applicando alla loro trasformazione le conoscenze contemporanee: sono un po’ un retroinnovatore“.
Un approccio moderno è indispensabile per ottenere un risultato soddisfacente; queste farine sviluppano un glutine debole e se sotto il profilo della digeribilità e tollerabilità ciò rappresenta un vantaggio, dal punto di vista tecnologico rappresenta una sfida e rende necessari particolari accorgimenti, soprattutto in fase di impasto e lievitazione. Tra i pani più richiesti in via Tiraboschi c’è un monovarietale di Tumminìa, uno di vecchi grani siciliani (con Russello, Perciasacchi, Bidì e Margherito), e un pane di farro monococco e dicocco. Scherziamo sulla Tumminìa: fino a cinque anni fa non la conosceva quasi nessuno che non fosse addetto ai lavori, oggi è un tormentone. “Alla fine tutti in qualche mese possono imparare a impastare – bene o male – vecchi grani: ciò che è davvero difficile è creare un’identità di prodotto”. Qui emerge il Longoni laureato in lettere, l’appassionato di moto d’epoca, quello che prima di dedicarsi al mestiere di famiglia aveva lavorato all’agenzia fotografica Contrasto. Longoni è sostanzialmente un marchio: lo conoscono dal Nord al Sud Italia, il suo pane si trova in carta in più di un ristorante, farne il nome equivale a presentare un biglietto da visita. Attenzione, però, a interpretare le sue parole come una glorificazione del marketing fine a se stesso: Longoni parla piuttosto della forza del racconto applicato al prodotto di qualità, che così diventa veicolo di libertà – libertà di scelta (il consumatore che si emancipa grazie a una conoscenza progressivamente migliore dell’alimento a base di grano) e di espressione (il panificatore che produce ciò che meglio lo rappresenta, nel pieno rispetto del grano e del consumatore). Questo concetto i giovani l’hanno capito bene.
BRISA, HARDCORE BREAD
Prendiamo Pasquale Polito, allievo prodigio di Longoni: l’abbiamo raggiunto da Brisa, il forno che ha aperto pochi mesi fa in centro a Bologna, sotto i portici. 29 anni, nato a Chieti e cresciuto a Nocciano, in provincia di Pescara (abruzzese come Adriano Del Mastro, che ha conosciuto da Bonci), è laureato in Geografia. “Quando sono arrivato qui da matricola sono rimasto come fulminato”, spiega. “Ero geometra, avevo alle spalle giusto un lavoretto in un bar: mi sono messo a studiare come un forsennato. Però non stavo bene: non riuscivo a trovare un pomodoro buono, un pane che sapesse di pane. Così ho cominciato a fare l’homebaker”. L’entusiasmo dei “clienti” di quartiere gli ha dato la carica e si è iscritto al primo Corso di Alto Apprendistato dell’UNISG di Pollenzo. Poi ha trovato la strada di Longoni. “Volevo a tutti i costi fare lo stage da lui, mi sono impuntato”, spiega. “E se dovessi tornare indietro rifarei tutto allo stesso modo”. Carlo Petrini ha dato a Pasquale la sua benedizione con un articolo su Repubblica alla vigilia dell’apertura di Brisa, ma è Longoni ad averlo formato, e anche se oggi il ragazzo è a sua volta titolare di un forno non esita a chiamare il maestro per un consiglio o un confronto (una strada a doppio senso: prima che inaugurasse il Mercato del Suffragio, Longoni ha arruolato Pasquale in un gruppo di tester per il pane e la pizza).
Brisa è il perfetto esempio di ciò che il brianzolo intende con “identità di prodotto”: slogan simpatici (“One love, one bread”, “Pasta madre is not a crime”, “Yeast coast”, “Forno Brisa: Hardcore bakery”) adornano le porte dei frigorigferi (in lettering adesivi che ricordano i messaggi di Barbara Kruger), le t-shirt dei ragazzi, i tappi delle bottiglie.
Tutto è inequivocabilmente scanzonato – non semplicemente “giovane”, perché potrebbe suonare diminutivo, riduttivo. Lo spazio è ben organizzato: dietro ci sono il magazzino e il laboratorio (che monta un interessante forno a tubi Bongard, stretto e lungo; i carrelli del pane, invece, sono un modello customizzato con ripiani forati per meglio areare la base delle forme), davanti la zona per la vendita. Schede informative spiegano la filosofia del negozio, con un glossario che illustra la differenza tra miscuglio evolutivo (la miscela in campo di varietà diverse, vecchie e nuove: strada sempre più percorsa da agronomi e contadini, che lavorano in concerto facendo “breeding partecipativo”) e blend (la miscela fatta in forno a partire da farine monovarietali). Tutti i pani prodotti con grani storici hanno bisogno di essere raccontati. Non sono pani “ovvi”: hanno molliche chiuse, fitte, a volte ruvide, croste che raramente “scroccano” (a meno che non si “tagli” la farina di vecchio grano con una farina moderna, “di forza”). Sono pani di profumo, sapore e storia più che di immediato piacere testurale. Ogni giorno Brisa ne serve 3-4 tipi diversi: c’è sempre una vecchia varietà di grano duro, una di tenero, un blend, un mix di cereali minori (monococco, dicocco, segale), oltre a un pane “base” e ai pani conditi, con olive, fichi, noci. Spesso c’è un pane con farina del progetto Virgo, miscela evolutiva sviluppata nel bolognese.
“Volevamo offrire un vero prodotto del territorio”
Spiega Pasquale: “ma l’obiettivo è arrivare a fare un pane a nome Brisa con un blend di farine in cui siano rappresentate le regioni da cui proveniamo noi soci: Sicilia, Abruzzo, Sardegna, Marche, Emilia Romagna”. Il packaging studiato dai ragazzi è accattivante, a tratti ammiccante, ma c’è anche contenuto, c’è “ciccia”. E c’è visione imprenditoriale, anche se l’operazione è minuscola. Merito del DNA societario: oltre a Pasquale ci sono Davide Sarti (videomaker di 34 anni) ed Esmeralda Spitaleri (28 anni, laureata in Scienze della Comunicazione); Pasquale fa il pane, Davide la pizza stirata in teglia, Esmeralda si occupa di birra (soci d’appoggio sono Enrico Cirilli, 37 anni, e Gregorio Di Agostini, 30 anni).



Prima di aprire Brisa i ragazzi (nome di battaglia Breaders) hanno fatto consulenze in giro per l’Italia. Brisa produce anche lievitati per la colazione e biscotti da forno, e oltre alle birre (la Soccia e la Sorbole) vende sidri e vini a fermentazione naturale. “Le birre le compriamo da piccoli produttori che conosciamo bene, ma l’idea è di incorporare presto un piccolo birrificio con mescita, oltre a un mulino, così da chiudere la filiera”. La filiera: parola fondamentale per questi giovani del pane. Non è un caso che il mio tour di Brisa sia cominciato in magazzino, con un resoconto dettagliato di fornitori e ingredienti, dai canditi per il panettone (di Corrado Assenza), alla passata di pomodoro (la “Pera d’Abruzzo”, che si trova anche su La Rossa, la pizza più amata dai clienti, insieme all’olio extravergine d’oliva della biofattoria Aleandri e all’origano selvatico di Sicilia dell’azienda agricola Filippone), alle farine. La scelta delle farine, per chi è serio nel suo approccio al pane, è cruciale: non parte un ordine se prima non si è conosciuto chi ha coltivato i grani, chi li ha moliti.
Questo è un mestiere che si fonda su catene di individui e professionalità antiche e interconnesse. I nomi giusti si conoscono: Mulino Sobrino, Azienda Agricola Floriddia, Podere Pereto, Molini del Ponte, Terre e Tradizioni… È un po’ come invocare il nome di Gianni Frasi parlando di caffè o di Cazzamali in una conversazione sulle animelle. Lo scouting è continuo: l’imperativo, in un ambiente in cui si rischia di usare tutti gli stessi prodotti (perché quelli realmente eccellenti sono pochi), è scoprirne di nuovi. “Ho trovato un’azienda agrobiologica a Torre San Patrizio (provincia di Fermo, zona di grande tradizione cerealicola, n.d.A.), si chiama La Viola: usiamo i loro legumi e anche il loro miscuglio di vecchie varietà di grano tenero”, racconta Polito con entusiasmo. “Sono pazzeschi”. La scena della nuova panificazione nostrana, si diceva, è piccola così e i giovani protagonisti si conoscono tutti. Ma non significa che le impostazioni siano identiche – e questo è il bello.






MAKE BREAD, NOT (ONLY) PIADINA
Il 37enne Alessandro Battazza, per esempio, rappresenta una formidabile anomalia. Tanto per cominciare lavora a Riccione che, come dice lui nel suo succoso, cantilenante accento romagnolo “è una città di estremismi: io infatti ne ho aperto uno”. Il suo estremismo si chiama Liévita (da “lì è vita”), un grande locale (forno più caffè) dai soffitti alti e dall’architettura quasi industriale; ferro, cemento, legno, un qualcosa di danese, forse, nelle linee, nelle nicchie su cui poggiano le forme di pane, quasi fossero borse di cuoio invecchiato o ciotole di ceramica grezza. Battazza, che si definisce un “ragazzo di Riviera”, è geometra, come Polito. Da ragazzino sognava di fare l’architetto; gli piaceva anche la pasticceria ma dopo il diploma ha seguito i corsi AIBES e ha cominciato a fare le stagioni come bartender. L’insoddisfazione l’ha spinto a ripensare a una carriera tra i dolci: si è iscritto un corso alla Cast Alimenti e ha fatto un colloquio per un posto da Pierre Hermé. Ci ha ripensato ancora una volta (il ragazzo è mercuriale, pare sia una questione territoriale) e ha deciso, invece, di aprire proprio a Riccione, pur sapendo che si trattava di una follia: anzi, il saperlo ha agito da incentivo. “Mi sono detto: il giorno che aprirò il mio locale lo farò col botto”, e così è stato. Per sua fortuna ha abbandonato quasi subito éclair e religieuse e ha optato per una linea di torte secche e dolci lievitati, più il servizio di panetteria. “Il pane ho cominciato a farlo davvero solo quando ho aperto Liévita: non sapevo molto e sono partito come tutti con farina Petra. Ho capito subito che avevo bisogno di aiuto: cercavo una mia identità, dovevo creare il mio sapore, e volevo farmi consigliare qualche altra farina”.
Il mentore di Battazza è stato Ezio Marinato, un’altra figura immensa della panificazione italiana, con un titolo mondiale conquistato ai campionati di Lione nel 2007 (scelto per rappresentare l’Italia da Piergiorgio Giorilli), e uno storico negozio di famiglia a Cinto Caomaggiore, in provincia di Venezia. Come Longoni anche Marinato ha da tanti anni un seguito di giovani che imparano il mestiere da lui. “Ezio è un mito, uno che non solo ti dice tutto, ma che ti tira fuori anche ciò che non sai di avere dentro. L’impostazione tecnica l’ho imparata da lui: è stato qui una settimana e poi c’è stato un gran confronto per telefono”. È grazie a Marinato se Battazza ha provato le farine dei Molini del Ponte, la sua prima incursione nel mondo dei vecchi grani. Da lì ha proseguito e gli si è schiuso un mondo. “Un bravo imprenditore dev’essere avanti di dieci anni. Io ho osservato ciò che accadeva all’estero, dove nel frattempo avevo fatto qualche esperienza; ho visto in che direzione andava il mondo, ovvero l’erosione del consumismo, il ritorno ai valori. Tutto questo ho cercato di veicolarlo nei miei prodotti”. C’è un pane di Russello con olive e mandorle, uno di Tumminìa con papavero, lino e avena, un pane di grano arso con fichi secchi e noci, un pane di Biancolilla con nocciola e albicocche. Pani saporiti, in formati per lo più grandi, come quelli favoriti da quasi tutti i nuovi fornai che lavorano con vecchi grani (la grande pezzatura permette di trattenere più a lungo l’umidità interna). Sono pagnotte meno regolari di quelle, per esempio, di Polito, o Longoni, quasi nodose in superficie. Scultoree, forse. Battazza lavora con il freddo (“a volte il mio impasto riposa per più di 12 ore a 6-12 C°: trovo che migliori l’umidità della mollica, oltre a permettermi di gestire meglio il mio tempo”) e il fuoco (cuoce in un magnifico forno artigianale a legna, altra anomalia). Qualche anno fa ha conosciuto Nicolas Supiot, il paysan boulanger di Maure-de-Bretagne, vicino a Rennes, che panifica scalzo, impastando in madia, e viaggia per tramandare il suo approccio olistico e spirituale. Battazza scherza “a Riccione potevo portare un dj, e invece ho portato un agricoltore fornaio bretone…”. Da Supiot ha ricavato un’esortazione alla lentezza, che forse aveva già nel sangue. Oggi Battazza impasta due volte a settimana, “perché trovo che far trascorrere del tempo tra cottura e vendita affini il sapore del pane, la sua acidità. E poi perché ho bisogno di ritagliarmi degli spazi per me”, ride, “devo potermi divertire! E devo aver tempo per far ricerca…”.
La ricerca è fondamentale.
“Al panettiere, in questo senso, manca la cultura del pasticcere e del cuoco: la ricerca del sapore ha vita breve se non capisci questo. Significa fare tante cose insieme, ma dov’è il problema? Pensa a quante cose faceva Leonardo Da Vinci!”. È una forma di equilibrismo tra vecchio e nuovo, davvero necessaria per chi vuole fare pane oggi. Battazza ne è l’incarnazione.







Un minuto mi racconta che sta per montare un mulino all’interno di Liévita, dove molirà grani coltivati apposta per lui in una cascina che era appartenuta a Giuseppe Verdi, a Forlì (“ecco l’obbiettivo: seminare il tuo sapore”, mi dice; lo stesso tra l’altro sta facendo Polito, con 8 ettari già messi a dimora nella sua campagna abruzzese). Il minuto dopo mi spiega che presto Liévita diventerà anche bistro. Sembra prender piede questo concetto della panetteria-con-piccola-cucina (senza scomodare l’America pensiamo all’Europa, al De Superette di Kobe Desramaults, a Ghent, al negozio di John Baker a Zurigo). A Roma pochi mesi fa con questa impostazione ha inaugurato Santi Sebastiano e Valentino: Battazza non lo conosce (“ma conosco i ragazzi di Pane e Tempesta, sempre a Roma, che sembrano bravi”), Polito sì, “l’ha impostato Franco Palermo”, mi dice, ovvero un altro grande mentore, maestro dello stesso Bonci, “che per un po’ è stato anche guida mia e di Adriano Del Mastro”. Longoni invece mi consiglia, su tutt’altra linea, di andare a trovare Maurizio Spinello, 38enne artigiano panificatore “eroico“ del Forno Borgo Santa Rita, in un paesino con una decina di abitanti in provincia di Caltanissetta. “È un bene che vengano fuori queste cose qui”, ragiona Battazza, “perché è vero che è in atto un rinascimento del pane e il futuro sono i giovani: sono giovani i nuovi agricoltori, le nuove teste brillanti. Solo che l’Italia è un paese per vecchi, e ci remano contro: per farcela dobbiamo contare solo su noi stessi”. Polito parla di Rivoluzione: “La rivoluzione del pane, una piccola rivoluzione, un giro, un ritorno.
“La vedo come una rivoluzione simbolica, il pane che torna sopra alle cose, al salame, alla frittata. La sua importanza è visibile, tangibile. Non è più una base”.
È come per le carte geografiche: si è compreso che non sono meri supporti, che non sono solo pezzi di carta”. Adesso capisco perché, come già mi spiegava Longoni, i nuovi fornai smaniano dalla voglia di vendere, di stare in negozio, dietro al bancone, a diretto contatto con il consumatore. Non è solo per il piacere di spiegare, di educare. Sono orgogliosi di un prodotto ben fatto e hanno voglia finalmente di metterci la faccia.