Testo di Ilaria Mazzarella
La fila in macelleria, la distanza di sicurezza al mercato,
poi nuove attese dal fornaio. Ma al rientro dalle commissioni, un impensabile
conforto: suonare il campanello. È alla vista della porta di casa che si indietreggia
dal fronte, ci si sfila l’armatura di tessuto e sfregandosi le mani nell’Amuchina
si trova rifugio nella trincea.
La guerra è fuori, invisibile, nelle strade semi-vuote. Ma anche un po’ dentro di noi, vittime impotenti della società dell’ipercontrollo. La combattiamo in casa, col frigo pieno e l’impasto che riposa, nella nostra gabbia dorata con il parquet di rovere e le finestre a vasistas. In un giorno ordinario, se non avessimo le chiavi, forse resteremmo fuori casa. Ma in questo periodo funesto di clausura coatta, di lavoratori in smartworking in attesa del prossimo decreto, abbiamo una piccola ma solida sicurezza. Ci hanno privato della mozzarella sulla pizza, ci impediscono di cor rere al parco. Misure doverose. Ci lamentiamo ma restiamo impassibili. Perché ciò che conta – quando naturalmente non abbiamo a che fare con problemi più seri – è avere qualcuno ad attenderci dietro quella porta, qualcuno che ci risponda quando suoniamo. “Chi è?” In quel momento non c’è più niente lì fuori. “Sono io”.
Rassicuranti le braccia che ci riaccolgono a casa. Per
alcuni è davvero una sensazione nuova essere insieme, uniti, tutto il tempo. Dovremmo
forse sentirci in colpa per questo timido brio di felicità? Eppure siamo ben
consapevoli di ciò che sta accadendo senza doverlo ricordare ogni minuto.
Abbiamo visto chiuderci attorno quasi tutto, come fossero tante caselle che si
spegnevano a cascata. Ne hanno lasciata solo una accesa. La nostra. Tanti noi,
da soli. A un metro l’uno dall’altro. Ho guardato tra le caselle spente e ho
visto un cuoco, una cuoca, che hanno dovuto bruscamente allontanarsi dall’unico
habitat che conoscono, la cucina. Ho visto un ristoratore preoccupato, che
chiudeva i battenti, con il peso della responsabilità verso i propri dipendenti.
Tutti fermi, senza sapere quando tutto finirà. Indeterminatezza, aleatorietà,
spaesamento. Ma forse proprio nel momento di maggiore sconforto che, dopo aver spento
le cucine, chiuso a chiave la porta e tirato giù la saracinesca, rincasando a
un orario insolito e con una stanchezza sconosciuta, si riesce a mettere a
fuoco.
Che a farsi nitida c’è l’immagine della famiglia, sempre
presente. Incroci lo sguardo innocente di quel bimbo che hai visto crescere con
la coda dell’occhio, mentre regalavi la parte migliore della tua giornata a
famiglie che non erano la tua. Quando ti accontentavi di un bacio sulla fronte
la sera tardi, dopo il secondo turno del servizio della sera, mentre lui dormiva
già profondamente. Bastava una carezza sulla testa a far sparire tutto il
resto, per stare in pace con il mondo. E pensavi: chissà se dorme tranquillo
perché sente che c’è il suo papà a proteggerlo. Sempre, anche quando non c’è. Soprattutto
quando non c’è, perché sta lavorando anche per garantirgli un futuro. Come quando
è mancato alla partita di pallone, perché era a Milano a ritirare un premio. O
quando non ha potuto presenziare il colloquio con i professori, perché era a
Salerno a una lezione di cucina. E perfino il giorno del suo compleanno, perché
era in Asia a promuovere il ristorante.
“Papà, ma che vuol dire? Ma non lo puoi fare domani che oggi
io, te e mamma andiamo al cinema?” Allora a te si gela il sangue, si ferma il
cuore, si riempiono gli occhi di lacrime. E inevitabilmente ti chiedi: sono davvero
un bravo papà? Poi, mentre bofonchi una qualche risposta, il bimbo ti regala un
sorriso radioso. Perché lui lo sa. Mamma glielo ha detto che papà non è che non
vuole. Non può. E lui lo ha capito. Non la prima volta forse, che ha pianto
tanto. Non la seconda, che ha pianto un po’ meno. Ci ha fatto il callo, anche
se continua a digerirlo a fatica. È un accordo tacito tra lui e papà. Glielo ha
provato a spiegare ai suoi compagni di classe e agli amichetti del parco: “Sì
ok, tuo papà fa tipo Masterchef, comunque non c’è mai”. No, loro non lo hanno
capito. Ma in fondo come potrebbero, loro che vedono papà tutte le sere, mangiano
la pizza il sabato e la lasagna la domenica. I loro papà fanno i dirigenti, gli
impiegati, gli operai. Che ne sanno cosa vuol dire davvero il sabato-sera, una
giornata da sempre offlimits. Che ne sanno che papà la domenica non è
casa perché quella lasagna gliela cucina lui. Non conoscono il rapporto
speciale che hanno lui e papà. A loro non servono tante smancerie. Si capiscono
con uno sguardo e ridono fino a quando fa male la pancia. Poco tempo ma
indimenticabile.
Ma poi un giorno, improvvisamente, qualcosa cambia. Arriva finalmente
un inaspettato riscatto. Il regalo più prezioso, che normalmente diamo per
scontato quando ne abbiamo in quantità. Il tempo. Quello che sta succedendo mamma
glielo ha provato a raccontare. Ha detto che dobbiamo stare tutti a casa, che
uscire non si può. Lui ha dovuto cercare “pandemia” su Google e ha capito che è
una cosa brutta, molto brutta. Ha smesso di andare a scuola, di allenarsi e di
uscire al parco davanti casa. Ha smesso di andare a trovare i nonni. Adesso
chiama gli amichetti dallo smartphone di mamma, li saluta e gli racconta che
cosa ha mangiato a pranzo. E cosa mangerà a cena. Perché adesso a casa c’è il
profumo del pane appena sfornato, le mani sporche di farina, il rumore delle
risate fragorose.
Papà non cucina più per gli altri, adesso lo fa per lui e
basta. E mentre racconta in videochat le gesta del suo eroe della cucina, nota
lo sguardo triste dei compagni. I loro papà sono a casa sì, ma tutto il giorno
rinchiusi in una stanza a lavorare. Prima computer, poi al telefono e di nuovo
al computer e telefono assieme. Ancorati agli auricolari, a volte restano
chiusi anche per l’ora di cena salvo riemergere fugacemente per il bacio della
buonanotte. Non sono fortunati come lui, che possono godersi il calore di casa
e le coccole paterne prima di andare a dormire. C’è una luce particolare negli
occhi di papà, a volte quasi non si distingue chi dei due è il bimbo. Sei
felice, tanto felice dopo averlo messo a letto. Ma, quando tutto tace, all’imbrunire
la malinconia si riaffaccia.
Hai dovuto chiudere il ristorante, diamine. E non sappiamo ancora per quanto. Eppure avevi così bisogno di questo tempo in casa in famiglia, di rallentare i ritmi e tornare a scoprire le piccole gioie a cui sei da anni abituato a rinunciare. Se andrà tutto bene non lo sappiamo, ma finché c’è qualcuno ci apre la porta di casa sappiamo che ce la caveremo. In qualsiasi caso.
Nota della Redazione:
Per regalare ai nostri lettori una pausa piacevole dalle brutte notizie che purtroppo ci coinvolgono da settimane abbiamo intervistato alcuni papà-e-mamme chef. Focalizzandoci sul lato positivo del loro nuovo, straordinario, quotidiano: il tempo recuperato con la famiglia, in particolare con i figli.
Leggi qui le interviste:
Luciano Monosilio e Tommaso
Iside De Cesare con Azzurra e Giacomo
Stefano Baiocco con Camilla e Carlo
Riccardo Di Giacinto con Eivissa
Ana Roš con Svit ed Eva Clara
Marco Martini con Vittoria